martedì 24 maggio 2011

Risurrezioni

Non so se è perché siamo nel tempo di Pasqua o perché al di sotto dell’equatore la semplicità crea spazio per la fede caparbia e ostinata, compagna di quella speranza che vede speranza anche quando umanamente si è ciechi… fatto sta che in questo periodo tocco con mano luce di Risurrezione, come Tommaso ha fatto (o avrebbe voluto fare!) con Gesù Risorto. Sono i “miracoli” dei poveri, non quelli poveri di soldi o di proprietà, ma quelli che si sentono poveri davanti a Dio: “anawim” li chiama l’Antico Testamento e Maria ne è il simbolo.
Tra la storia di Adano che ho continuamente tra le mani e altre di cui vengo a conoscenza, non ho più tanti dubbi sull’azione dello Spirito di Dio su questa terra, se non sempre direttamente, tramite altre persone. Che diventano testimoni e facilitatori di risurrezione. Parte del sogno di Dio.
Ho conosciuto Erik (lasciatemelo chiamare così) non tanto tempo fa. Primo di tre fratelli cresciuti in città, a Nairobi… beh non in centro, in periferia… quasi in quelli che noi chiamiamo slum o baraccopoli e che lui ha sempre chiamato casa. Il papà, un bel giorno, torna a casa e dice alla mamma che vorrei sposare una seconda moglie. La mamma rifiuta, ben sapendo che questo lo allontanerà da lei e lei dovrà occuparsi di se stessa e dei suoi tre frugoletti da sola. E così il papà sparisce dalla circolazione e va ad abitare con la nuova moglie. Non si farà mai più vivo, neanche quando i suoi figli saranno grandi. La mamma ce la mette tutta, e i ragazzi crescono bene, ben educati, con pochi soldi (lei lavora come cuoca per una famiglia di Nairobi) ma responsabili. La mamma è severa: tutte le domeniche a messa, non si sgarra… Ed è questo suo attaccamento alla parrocchia e a Dio anche nei momenti problematici della vita (non pensate che vivere in una baracca di metallo di due metri per tre in quattro persone con due letti, senza bagno e senza acqua, sia sempre così accomodante!) che salverà la vita dei suoi figli, quando lei nel giro di poco tempo si ammalerà di quella malattia là e morirà di tubercolosi in un ospedale pubblico, lasciando la famigliola in mano al primogenito di appena 16 anni. All’improvviso i parenti che durante la nascita dei bimbi e la malattia della mamma se ne sono sempre stati defilati facendosi gli affari propri, arrivano alla carica per spartirti i due scellini che lei si lasciata dietro… Senza di lei, i ragazzi non possono più pagare l’affitto della loro “casetta”… Sembra che Erika debba smettere la scuola superiore (era al secondo o al terzo anno) per occuparsi dei suoi due fratellini. Il futuro è nero, il presente ancora di più… Cercano di mettere insieme le forze, ma come se non bastasse un giorno, mentre i tre fratelli erano a scuola, viene appiccato il fuoco al loro quartiere. Sono baracche, abusive: i proprietari del terreno lo vogliono vendere per costruirci sopra una pompa di benzina (che oggi è attiva e funziona!)… Il fratello di Erik, uscito prima da scuola, vede il fuoco e cerca di salvare il possibile, alcuni libri, pochi vestiti… Tutto il resto, documenti, foto, storia di una famiglia se ne va in fumo in pochi minuti.
Ed è in questo momento di disperazione che entra in atto la “Jumuya” o “piccola comunità del Vangelo”, ossia quel gruppo di cristiani, soprattutto vicini di casa, che si trovano insieme una volta alla settimana e leggono il Vangelo della domenica e cercano di essere testimoni dell’Amore di Cristo. Conoscono Erik e la sua famiglia, segnalano il caso al parroco che si attiva prontamente e propone ai ragazzi di entrare in un istituto dove si prenderanno cura di loro. Forse non potranno restare insieme, ma avranno il pasto assicurato. Erik e i suoi fratelli ci pensano bene, ma non vogliono perdere l’unica cosa che hanno: la loro unità! Giusto… il parroco propone un’altra soluzione: costruire una casetta su un terreno della parrocchia e darla ai ragazzi perché possano crescere insieme, con l’assistenza di alcuni cristiani della parrocchia. A Erik non piace parlare di quel periodo però ripete continuamente che senza l’aiuto dei cristiani e di Maria non ce l’avrebbero fatta. Da quando la sua mamma non c’è più dice di essere stato adottato da un’altra mamma: quella Celeste. Ora Erik è laureato e nel suo lavoro ha sempre un occhio sulle persone più disagiate. Non è solo un modo per ricambiare quel che è stato fatto per loro, ma la sua vocazione. Gli altri due fratelli sono entrambi sistemati e ora la casetta della parrocchia è usata da altre persone in difficoltà!


Quanti miracoli sono tra noi! E il Signore Risorto continua a parlare, anche tramite quella canzone tratta dal “Principe d’Egitto” che accompagna la grande uscita di Mosè e del suo popolo dalla terra del faraone. Un canto che mi segue, suggestiona, ispira, dà coraggio e stupore dall’anno scorso, quando durante la mia prima vacanza in Italia, mi sono concessa alcuni giorni di silenzio durante i nostri adorati “week end” di Susa che scandivano i miei mesi italiani. Fa così:


“Molte notti noi pregammo senza chiederci
Se in quel buio fosse già la nostra verità.
Paura non avrai, la fede sa proteggerci,
la speranza può cambiare la nostra realtà.

Vedrai miracoli, se crederai.
La fede non si può fermar…
Quanti miracoli sono tra noi
e condividerli potrai,
potrai se crederai

Questo è il tempo in cui sperare non è facile
e la gioia che c’è in noi nel vento vola via.
Ed ora sono qui,
il cuore così fragile,
cerco in me la forza che non ho avuto mai.

Vedrai miracoli, se crederai.
La fede non si può fermar…
Quanti miracoli sono tra noi
e condividerli potrai,
potrai se crederai.
Vedrai miracoli, se crederai.
La fede non si può fermar…
Quanti miracoli sono tra noi
e condividerli potrai,
sì, potrai…
potrai se crederai…
potrai se crederai”.

E’ strano, ma anche qui che di “Mosè-salvatori di popoli” non ne ho visti molti, la vita di alcune persone continua a cantare questa canzone. Il rumore del mondo non riesce a nascondere la melodia ad orecchi in ricerca di musica d’autore.
Ogni risurrezione è un fatto d’amore.
Come la piccola vita di Rael. Ma questa... e' un'altra storia!

Risurrezioni

Non so se è perché siamo nel tempo di Pasqua o perché al di sotto dell’equatore la semplicità crea spazio per la fede caparbia e ostinata, compagna di quella speranza che vede speranza anche quando umanamente si è ciechi… fatto sta che in questo periodo tocco con mano luce di Risurrezione, come Tommaso ha fatto (o avrebbe voluto fare!) con Gesù Risorto. Sono i “miracoli” dei poveri, non quelli poveri di soldi o di proprietà, ma quelli che si sentono poveri davanti a Dio: “anawim” li chiama l’Antico Testamento e Maria ne è il simbolo.
Tra la storia di Adano che ho continuamente tra le mani e altre di cui vengo a conoscenza, non ho più tanti dubbi sull’azione dello Spirito di Dio su questa terra, se non sempre direttamente, tramite altre persone. Che diventano testimoni e facilitatori di risurrezione. Parte del sogno di Dio.
Ho conosciuto Erik (lasciatemelo chiamare così) non tanto tempo fa. Primo di tre fratelli cresciuti in città, a Nairobi… beh non in centro, in periferia… quasi in quelli che noi chiamiamo slum o baraccopoli e che lui ha sempre chiamato casa. Il papà, un bel giorno, torna a casa e dice alla mamma che vorrei sposare una seconda moglie. La mamma rifiuta, ben sapendo che questo lo allontanerà da lei e lei dovrà occuparsi di se stessa e dei suoi tre frugoletti da sola. E così il papà sparisce dalla circolazione e va ad abitare con la nuova moglie. Non si farà mai più vivo, neanche quando i suoi figli saranno grandi. La mamma ce la mette tutta, e i ragazzi crescono bene, ben educati, con pochi soldi (lei lavora come cuoca per una famiglia di Nairobi) ma responsabili. La mamma è severa: tutte le domeniche a messa, non si sgarra… Ed è questo suo attaccamento alla parrocchia e a Dio anche nei momenti problematici della vita (non pensate che vivere in una baracca di metallo di due metri per tre in quattro persone con due letti, senza bagno e senza acqua, sia sempre così accomodante!) che salverà la vita dei suoi figli, quando lei nel giro di poco tempo si ammalerà di quella malattia là e morirà di tubercolosi in un ospedale pubblico, lasciando la famigliola in mano al primogenito di appena 16 anni. All’improvviso i parenti che durante la nascita dei bimbi e la malattia della mamma se ne sono sempre stati defilati facendosi gli affari propri, arrivano alla carica per spartirti i due scellini che lei si lasciata dietro… Senza di lei, i ragazzi non possono più pagare l’affitto della loro “casetta”… Sembra che Erika debba smettere la scuola superiore (era al secondo o al terzo anno) per occuparsi dei suoi due fratellini. Il futuro è nero, il presente ancora di più… Cercano di mettere insieme le forze, ma come se non bastasse un giorno, mentre i tre fratelli erano a scuola, viene appiccato il fuoco al loro quartiere. Sono baracche, abusive: i proprietari del terreno lo vogliono vendere per costruirci sopra una pompa di benzina (che oggi è attiva e funziona!)… Il fratello di Erik, uscito prima da scuola, vede il fuoco e cerca di salvare il possibile, alcuni libri, pochi vestiti… Tutto il resto, documenti, foto, storia di una famiglia se ne va in fumo in pochi minuti.
Ed è in questo momento di disperazione che entra in atto la “Jumuya” o “piccola comunità del Vangelo”, ossia quel gruppo di cristiani, soprattutto vicini di casa, che si trovano insieme una volta alla settimana e leggono il Vangelo della domenica e cercano di essere testimoni dell’Amore di Cristo. Conoscono Erik e la sua famiglia, segnalano il caso al parroco che si attiva prontamente e propone ai ragazzi di entrare in un istituto dove si prenderanno cura di loro. Forse non potranno restare insieme, ma avranno il pasto assicurato. Erik e i suoi fratelli ci pensano bene, ma non vogliono perdere l’unica cosa che hanno: la loro unità! Giusto… il parroco propone un’altra soluzione: costruire una casetta su un terreno della parrocchia e darla ai ragazzi perché possano crescere insieme, con l’assistenza di alcuni cristiani della parrocchia. A Erik non piace parlare di quel periodo però ripete continuamente che senza l’aiuto dei cristiani e di Maria non ce l’avrebbero fatta. Da quando la sua mamma non c’è più dice di essere stato adottato da un’altra mamma: quella Celeste. Ora Erik è laureato e nel suo lavoro ha sempre un occhio sulle persone più disagiate. Non è solo un modo per ricambiare quel che è stato fatto per loro, ma la sua vocazione. Gli altri due fratelli sono entrambi sistemati e ora la casetta della parrocchia è usata da altre persone in difficoltà!


Quanti miracoli sono tra noi! E il Signore Risorto continua a parlare, anche tramite quella canzone tratta dal “Principe d’Egitto” che accompagna la grande uscita di Mosè e del suo popolo dalla terra del faraone. Un canto che mi segue, suggestiona, ispira, dà coraggio e stupore dall’anno scorso, quando durante la mia prima vacanza in Italia, mi sono concessa alcuni giorni di silenzio durante i nostri adorati “week end” di Susa che scandivano i miei mesi italiani. Fa così:


“Molte notti noi pregammo senza chiederci
Se in quel buio fosse già la nostra verità.
Paura non avrai, la fede sa proteggerci,
la speranza può cambiare la nostra realtà.

Vedrai miracoli, se crederai.
La fede non si può fermar…
Quanti miracoli sono tra noi
e condividerli potrai,
potrai se crederai

Questo è il tempo in cui sperare non è facile
e la gioia che c’è in noi nel vento vola via.
Ed ora sono qui,
il cuore così fragile,
cerco in me la forza che non ho avuto mai.

Vedrai miracoli, se crederai.
La fede non si può fermar…
Quanti miracoli sono tra noi
e condividerli potrai,
potrai se crederai.
Vedrai miracoli, se crederai.
La fede non si può fermar…
Quanti miracoli sono tra noi
e condividerli potrai,
sì, potrai…
potrai se crederai…
potrai se crederai”.

E’ strano, ma anche qui che di “Mosè-salvatori di popoli” non ne ho visti molti, la vita di alcune persone continua a cantare questa canzone. Il rumore del mondo non riesce a nascondere la melodia ad orecchi in ricerca di musica d’autore.
Ogni risurrezione è un fatto d’amore.
Come la piccola vita di Rael. Ma questa... e' un'altra storia!

venerdì 6 maggio 2011

Italy!


E bagno italiano fu… con un po’ di riposo tra scenari diversi, tra colline di Langa che sbocciavano alla primavera, mare e uliveti di Molfetta (dove abbiamo incontrato don Paolo, la sua accogliente famiglia, i suoi giovani in procinto di atterrare a Marsabit per un’estate diversa e la sua attiva parrocchia!), caldo e verde di Verona in compagnia di suor Pierina e del nettare del Vinitaly, neve di montagna (per Michael la prima volta… come ritornare bambini a 30 anni!) e sorrisi e vite di persone che rimangono care, amiche e vicine nonostante la lontananza fisica. Giorni condivisi tra incontri di gruppi, cresimandi, ragazzi del catechismo, bambini della scuola, un tiro al pallone appena possibile, gruppi missionari, catechisti, incontro con il nuovo vescovo Mons. Lanzetti e la firma del rinnovo della convenzione fino al 2014, interviste per il dvd dell’Azione Cattolica, polentata di Karibuni (con una nutrita combriccola somala che ci ha fatto capire quanto il mondo non ha più barriere, nonostante in tanti gliene vogliano mettere di nuovo, e in un certo senso ci stanno riuscendo!), un po’ di burocrazia e visite mediche e tempo passato in famiglia.

Stare, camminare, viaggiare, scoprire la neve e il mare, salire sulla Mole, sentirsi “turisti” a casa propria o abitanti di lunga data anche se arrivati solo da un giorno… Questo periodo di soggiorno nel Bel Paese, dal 23 marzo a metà aprile, è stato un momento importante per me e Michael, in cui ci siamo dovuti confrontare insieme con una realtà che ci ha fatto invertire le parti tra straniero e cittadino. Nonostante le premesse non fossero state così felici e fino a poche ore prima della partenza dal Kenya fossimo rimasti sulle spine per la fatidica carta d’ingresso per Michael nel “primo mondo”!

La paura del diverso, che continua ad essere venduta (o regalata) quotidianamente dai mass media e da tanti politici nella nostra Italia, a cui avevo preparato Michael, ci ha tolto il fiato fin dal primo momento in cui abbiamo messo piede nell’Ambasciata italiana. Nonostante le lettere di invito e di raccomandazione dei nostri due vescovi di Alba e di Marsabit, l’assicurazione sanitaria pagata e ripagata, la mia presenza nel viaggio di andata e ritorno e l’assicurazione dell’alloggio e delle spese coperte…, la risposta dell’Italia è stata NO. Michael non può entrare. E tanti come lui con il visto negato. Cavilli burocratici, che ci prendono alla sprovvista, vista la facilità con cui l’anno scorso Eva Darare aveva ottenuto il suo visto per l’Italia. Manca il timbro del Nunzio apostolico (il rappresentante del Vaticano in Kenya!), ci dicono. La Chiesa, nonostante tutto, a livello burocratico, è ancora uno Stato, rispettato e “corteggiato”. Per questa volta dico: “meno male”! Comunque, corse matte fino a 6 ore prima della partenza quando, grazie all’aiuto e al paterno sostegno del nostro vescovo Kihara, che la Provvidenza ha portato a Nairobi proprio in quei giorni, siamo riusciti ad avere la chiave per passare la porta stretta. Due notti passate a pregare, sveglia prima dell’alba per evitare il tremendo traffico della capitale ed iniziare le corse tra un ufficio e l’altro, il pianto finale al mattina della partenza: “Ci abbiamo provato, ma non ce l’abbiamo fatta, non c’è più tempo” e poi, invece, la Provvidenza agisce (anche Lei ha i suoi tempi, si sa!): grazie ad una telefonata dalla Nunziatura all’Ambasciata, robe da pezzi grossi, e il permesso del nunzio accordato sulla fiducia del suo vescovo Kihara… eccoci uscire alle 16 del 22 marzo da quel piccolo territorio dello Stato italiano nel centro di Nairobi con in tasca la chiave d’ingresso. Ultime compere, non stiamo più nella pelle dalla felicità, camminiamo per le strade fangose del sobborgo di Nairobi dove vive il fratello di Michael come se fossimo in piazza Duomo a Milano e i nostri cuori sono già in volo, per ringraziare Colui che ha reso possibile tutto questo.
Premesse al nostro soggiorno non così rassicuranti. Un po’ di freddo e ghiaccio, ancora, come primo impatto in alcuni incontri in Italia: “Forse la gente ha paura di me, non mi sorride, non mi guarda negli occhi, ha paura a parlare inglese, perché?”. “Pole pole, Mich… siamo langhetti noi, un po’… “muntagnin”, dacci tempo!”. E il tempo arriva. Sarà per il sorriso che Michael non risparmia a nessuno, sarà per la simpatia che alcuni hanno per le persone africane o forse per il senso di fratellanza e comunione che viene a galla dopo i primi minuti: esce il sole e il giacchio si scioglie, soprattutto con i bambini (direi soprattutto bambinE!!!). Tanto che ci dispiace proprio partire, ritornare, lasciare le cure e il buon cibo di mamma… Ma Erika ci aspetta a Nairobi, per salutarci dopo la sua esperienza di tre mesi nel Marsabit, anche lei con il suo bagaglio di avventure, imprevisti, amicizie nuove, incontri particolari… da raccontare o da custodire.
Dopo la sua partenza e alcune visite ad amici di Michael, mi preparo a ritornare a Marsabit per condividere la settimana santa e la Pasqua con la comunità dell’altopiano e dei suoi dintorni. Lascio le valigie, troppo ingombranti per il viaggio, alla procura di Nanyuki, con preghiera di spedirle su una macchina appena possibile e accetto un passaggio su una macchina della diocesi, molto affollata ma calorosa. Michael continua una full immersion a Nairobi, con gli altri laici missionari del suo gruppo.
Pasqua serena, pranzo con Darare e i suoi variegati ospiti, campo scuola per adolescenti in parrocchia con 120 ragazzi provenienti dalla nostra grande parrocchia, preparazione per riprendere il lavoro alla scuola…
E…siamo benedetti dalla pioggia, un’intera nottata con grande temporale. Pioggia attesa da tanto, pioggia che doveva essere lunga un mese e si limita ad una notte. La gente comunque esulta. Non sia che, proprio quella notte, Michael ha programmato il suo viaggio di ritorno a Marsabit e poi a Maikona con il famoso bus che ci collega ad Isiolo. Il fango è troppo; già in forte ritardo il bestione si impantana e lascia a piedi per ore i suoi ospiti, a 20 km da Marsabit. Parecchi tra i fortunati viaggiatori si incamminano a piedi e dopo tre ore nel fango raggiungono il centro. E così anche Michael. Una bella doccia (beh “doccia” si fa per dire, senza luce elettrica per quasi un mese, non posso pompare l’acqua dalla cisterna e quindi… lavaggio a pezzi!), il chai bollente, un po’ di riposo… e ci godiamo le ultime ore di “vacanza” insieme. Consapevoli di avere una Certezza dentro, che mai avevamo sentito così forte. Certezza che ci impegna, ci fa felici e ci spinge a ringraziare.

Il tempo di solitudine, dopo la partenza di Michael, non dura troppo. Festeggiamo il matrimonio di Joseph, mio vicino di casa e impiegato nei progetti di sviluppo della diocesi, con Stella, figlia del catechista di Kargi, tra canti, balli, organizzazione un po’ “holliwoodiana” e una buona capra! E poi… alla riapertura delle scuole, ecco il nostro piccolo nomade Adano tornare dal deserto con tante cose da raccontare, ma senza un posto dove stare, fino a quando il collegio non riaprirà (a discrezione del preside, che sembra si sia dimenticato di ordinare il cibo e la legna per il fuoco, ops!). Il letto si prepara in un batter d’occhio e divento mamma fino a data da destinarsi.
Come inizio del nuovo trimestre non c’è male!