giovedì 3 novembre 2011

Verde erba

Aspettavamo giornate cosi’ da tre anni... Giornate uggiose, umide, fangose… ma soprattutto PIOVOSE! E’ una pioggia che rilassa gli animi questa che Dio sta elargendo sul Marsabit e sul Chalbi intero, che lava via la polvere che era ormai diventata insopportabile anche fisicamente, che fa germogliare i forti semi nascosti appena sotto la dura scorza del terreno e ricopre tutto di un verde brillante quasi incredibile. Giornate classiche autunnali di nebbia fitta si alternano a generosi momenti di sole, che quasi arrabbiato si affaccia a un cielo bluissimo tra qualche nuvola bianca come panna montata. Domenica scorsa andando a messa, dopo le due grandi giornate di pioggia di venerdi’ e sabato in cui siamo stati chiusi in casa (chi a casa e’ riuscito ad arrivarci, magari dopo peripezie acrobatiche su fango e strade trasformate in torrenti!), mi sono tornate alla mente alcuni versi che quel grande poeta del Pascoli aveva saputo sapientemente leggere nell’animo umano: “La quiete dopo la tempesta”. E’ allora che mi sono accorta che la tensione accumulata in questi mesi di siccita’ si era liquefatta, come se i muscoli dopo un grande sforzo fisico si fossero rilassati per ritornare alla loro forma di riposo. Come la domenica mattina della Pasqua di Risurrezione dopo il venerdi’ di morte. Rilassamento, quasi smarrimento davanti a tanta bellezza che non ricordavamo neanche potesse esistere. La gente si saluta di nuovo, anche se cammina con centimetri di fango sotto le scarpe e sta attenta a non scivolare su questa schiuma di sapone che e’ la terra vulcanica bagnata! I borana hanno addirittura un saluto speciale per le giornate di pioggia!
Dopo un forte temporale nel pomeriggio di oggi, che bello vedere i bimbi della scuola camminare per strada, con le loro scarpe in mano e i piedi nudi immersi nel fango o appoggiati sulla terra scivolosa! Certo hanno piu’ equilibrio di me che da scuola a casa invece di impiegarci il solito quarto d’ora, oggi ci ho messo il triplo. Ma anche loro ogni tanto scivolano su questo che sembra un campo da calcio saponato (come quello delle Caravelle) e si rialzano con destrezza tra le risate generali degli altri amici, riprendendo la corsa come se niente fosse accaduto. Tutti lasciano i loro impegni normali quando c’e’ la grande pioggia e gli alunni vengono lasciati andare a casa prima del suono della campanella: un ambiente che mi ricorda le nostre grandi nevicate in Piemonte! Catini sotto le grondaie (che comunque sono sempre bucate!) e riposo fino a quando cade l’ultima goccia di pioggia. Da quel momento in poi non c’e’ tempo per oziare: lenzuola, vestiti, materassi, coperte e tende vengono immersi nell’acqua per un sano lavaggio nella benedizione di Dio! Le capre, gli asini e le mucche sopravvissute hanno di che soddisfarsi con la tenera erbetta che copre e nasconde tutte le spazzature e le immondizie che il vento ha portato in giro nelle ultime settimane. Tutti i sensi riscoprono sensazioni nuove. Le nostre narici si rilassano, facendosi permeare dal nuovo profumo di terra bagnata e di vita appena nata. Le nostre orecchie ascoltano il cinguettio di uccelli variopinti che cantano festosi dai rami gia’ coperti di nuove verdissime foglie. E i nostri occhi si riposano sui fiori che coronano da un giorno all’altro i nostri cortili e sembrano convincersi di non essere in un sogno. Almeno per un po’ di mesi!

lunedì 10 ottobre 2011

W la siccita'!

Sembra incredibile da dire, sembra l’opposto contrario di ciò che ci trasmette la TV (a volte!) e i dettagliati documentari, sembra contro il buon senso, ma è la verità: evviva la siccità…
Già, perché, è vero, la gente di Marsabit e dintorni stava veramente soffrendo, qui in città per la mancanza d’acqua (non esiste ancora un acquedotto e più di 30.000 persone si riforniscono per i loro fabbisogno quotidiano da tre pozzi e da mille autobotti, commercianti di acqua) e nei villaggi del Chalbi per la mancanza di pascoli per gli animali, e quindi la mancanza di latte… e quindi fame!

Quando sono stata a Maikona per una settimana ad agosto, il panorama che ci si apriva davanti non era incoraggiante. Quasi ogni giorno arrivava al dispensario un bambino denutrito, che veniva inserito nel programma apposito di controllo e aiuto nell’alimentazione con sacchettini ipercalorici di burro d’arachidi e vitamine. Alla fine di agosto erano 27 i bimbi inseriti in questo programma (ma i casi più severi venivano riferiti all’ospedale di Marsabit, perché ormai incapaci di nutrirsi, di deglutire il latte o di prendere ogni altra cosa per bocca!), più 3 adulti. Ogni due settimane poi 30 pazienti HIV positivi e circa 400 mamme, chi incinta, chi con bambini appena nati, chi anziana e senza altro sostentamento, vengono a ritirare 4 kg di porridge e un litro di olio. Oltre a un po’ di mais e fagioli che il Governo passava, questo era tutto. Già, perché la loro prima fonte di sostentamento, il latte e la carne di animale, non era più reperibile, vista la moria generalizzata di capre e mucche per mancanza di pascoli. Grazie al Centro Missionario di Alba, abbiamo deciso di comprare 20 sacchi di latte in polvere da distribuire ai fruitori dei diversi programmi del dispensario, per dare loro la possibilita' di una dieta un po' piu' equilibrata e "normale" secondo la loro cultura.
Tuttavia, se guardiamo il Marsabit in questi giorni, questa siccità sembra capitata proprio a fagiolo… nel senso che la TV del Kenya ne ha fatto un caso nazionale, ha bombardato i “veri” kenyani a contribuire con lo slogan “Kenyans for Kenya!”. Da quel momento, oltre alla valanga di soldi raccolti nel paese, tante ONG si sono svegliate e i paesi “ricchi” hanno incominciato a pompare risorse nel nord del Kenya… Nel centro di Marsabit ogni giorno non possono mancare tir carichi di cibo di diverse provenienze: Caritas norvegese, Caritas Maltese, Caritas Svizzera, SOS, Croce Rossa, ONU e tante altre Organizzazioni non governative locali e nazionali. Migliaia sacchi di farina per uji (porridge, pappa d’avena), mais, fagioli, riso… distribuiti a tutti, proprio a tutti, alle famiglie, alle chiese, ai dispensari, alle scuole pubbliche (che ora danno da mangiare agli alunni anche sabato e domenica!). E poi altri progetti, tipo quella della “carta viveri”: dai 20 ai 70 euro in viveri da ritirare in uno dei negozi del villaggio. La gente riceve acqua gratis ora: ci sono punti di distribuzione da autobotti e cisterne in diverse parte della città. Tutti questi aiuti, iniziati a settembre, andranno avanti per sei mesi. Passando a North Horr alcune settimane fa, mi sono accorta che le capanne, ogni capanna, è piena di cibo (a sacchi) e i negozi di generi alimentari non lavorano più. Sono rimasta colpita da un fatto che Padre Hubert, il parroco, mi ha raccontato. Il preside di una delle scuole elementari del villaggio chiese al padre se potesse aiutarlo a pagare il cuoco perché non aveva soldi disponibili e quelli del governo per i salari non erano ancora arrivati. In cambio il maestro gli avrebbe dato alcuni sacchi di cibo. P. Hubert rifiutò, chiedendo perché piuttosto non potesse pagare il cuoco con questo cibo. Il preside scosse la testa e rispose che il lavoratore li aveva rifiutati, dicendo che il cibo ormai era troppo, la sua casa era piena, non poteva neppure venderlo perché tutti ne avevano in abbondanza e quindi non sapeva che farsene.
Questo e altri fatti mi lasciano perplessa… e alimentano la rabbia per l’ingiustizia che i miei occhi vedono e che a volte è veramente palese: il commercio e la mafia che c’è dietro questa distribuzione di viveri è enorme e sta arricchendo commercianti, organizzazioni e alcune famiglie… Questa situazione inoltre spinge tutti all’indolenza e alla pigrizia, scoraggiando ogni iniziativa personale e demolendo l’autostima, perché trasforma tutti in “ricevitori”, in “richiedenti”, poverini perché senza nulla da dare…
Tante volte rileggendo alcuni passaggi dell’Esodo, mi convinco come la storia di liberazione di Israele dalla schiavitù egizia da parte di Mosè, guidato da Dio, sia un po’ la storia di ogni popolo, e anche di questo di Marsabit. Un popolo quasi inerme, come quello di Israele, che, una volta giunto alla liberta, nel deserto si rivolta contro il suo leader e gli sbatte in faccia ciò che tutti pensavano: era meglio morire in Egitto con la pancia piena che starsene qui nel deserto liberi ma senza nessuna sicurezza (Esodo, cap. 16). E allora penso: “Perché provare a sfruttare le risorse di questo territorio – per esempio le pietre, la sabbia, le pelli di animali – se qualcuno mi dà comunque da mangiare gratis? E perché cercare soluzioni a lungo termine – per esempio costruire un acquedotto, a 30 km da Marsabit ci sono falde colme di acqua o implementare e facilitare il commercio e l’allevamento redditizio di animali – se intanto questo “mettere delle toppe” dà da mangiare a così tanta gente? E perché dire no alla corruzione per essere liberi, se tanto poi quello che mi interessa è avere la pancia piena e basta”. Ogni tanto mi viene da pensare che questa gente è schiava e non lo sa. E noi siamo complici del… Faraone. Come fare per nascere in alcuni la domanda di libertà e di bene comune? E – in chi questa domanda ce l’ha già nel cuore – (e ce ne sono!), come fare a farne un movimento comune, unitario? Forse Marsabit sta ancora aspettando il suo Mosè. O il tempo giusto per agire e camminare finalmente verso la Terra Promessa. E se questo tempo di sofferenza e di ingiustizia servisse davvero a toccare il fondo e a dare la spinta per alzarsi in piedi, allora W la siccità!

mercoledì 3 agosto 2011

La fede non va in vacanza


Oggi, domenica particolare, vacanziera: quasi tutti i membri del gruppo del Vangelo che frequento sono partite per le vacanze, essendo insegnanti e essendo originarie del downcountry. Così niente incontro per leggere e condividere il Vangelo della prossima domenica. Allora approfitto per una breve visita a Maria, uno dei nostri membri che non vedo da parecchio tempo, la cui famiglia è stata toccata da una “tragedia”, diremmo noi. Una delle loro bimbe, Cynthia, quinta elementare, ha un cancro maligno alla faccia. Glielo hanno scoperto a maggio, dopo un anno e mezzo di mal di testa e stanchezza non comune ad una ragazzina di undici anni. Mamma e papà sono infermieri nel nostro ospedale pubblico di Marsabit e avevano già parlato con diversi medici, riportando i problemi di Cynthia e del suo improvviso russare molto rumorosamente tutte le notti. “Non è niente, signora, non si preoccupi, poi passa!”, così le avevano liquidate, senza neanche una visita.
Alcuni mesi fa Maria si accorge di una protuberanza sul collo della sua piccola che cresce a vista d’occhio. Non perdono tempo, vanno dritti a Wamba dove la mamma ha studiato da infermiera, nell’ospedale dei missionari della Consolata e dove per tanti anni ha lavorato un medico italiano, Dott. Prandoni. Le fanno una biopsia, la inviano a Nairobi. Dopo due giorni il verdetto: cancro maligno. Nairobi, in uno dei più competenti (e costosi!) ospedali privati, confermano che Cynthia ha un tumore al terzo stadio, con due masse distinte, nel collo e sotto il setto nasale, senza metastasi. I genitori, lavorando nel settore, sanno che cosa spetta alla loro piccola e anche alla loro famiglia. Chiedono aiuto al dottore per spiegare alla figlia che cosa succederà nei prossimi mesi della sua vita e per un sostegno psicologico. Maria mi dice che da quel momento ha messo tutto nelle mani del Signore e con fiducia ha continuato a sorridere. E questo contribuisce a dar forza a loro figlia, che ora sta combattendo una lunga battaglia. Inizia la chemio terapia. Effetto devastante alla prima seduta, “ma poi – mi racconta la mamma – dalla seconda in avanti, Cynthia dorme per 10 giorni consecutivi. Non sente male e il tumore diminuisce visibilmente”.

La ragazzina non era in casa quando oggi sono andata a trovare la famiglia. “E’ andata all’incontro delle Upendo girls in parrocchia”, conferma suo fratello, un anno più piccolo di lei. La mamma sorride e mi dice che per lei è come se fosse già guarita e infatti la prima cosa che mi colpisce profondamente parlando con loro seduta nel loro soggiorno è che quella non sembra minimamente una famiglia che sta subendo una tragedia. Maria continua a ripetermi che la loro fiducia è nel Signore e che Dio è buono perché non ha fatto mai mancare la Sua forza e la voglia di vivere a loro e a Cynthia. Le confermo che l’atteggiamento positivo in una lotta così è quasi più importante delle medicine o meglio le medicine sarebbero di certo meno efficaci se sul loro volto non ci fosse serenità e nel loro cuore una fiducia che non può che arrivare dall’Alto. Hanno organizzato una raccolta di soldi tra parenti e amici per sostenere le costosissime spese mediche e domenica prossima ripartiranno per Nairobi: è la volta della radioterapia per un ciclo di cinque settimane.
Maria mi accompagna alla porta, sento la loro forza e la loro fede, e le vedo presenti sui loro volti. Grazie per la vostra grande testimonianza cristiana, Maria, John e Cynthia.

mercoledì 20 luglio 2011

Riflessione

DA UN ARTICOLO DI ENZO BIANCHI

"Il P.I.L. misura tutto, eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta. Può dirci tutto sul nostro Paese, ma non se possiamo essere orgogliosi di esserne cittadini».
Mi viene spontaneo tornare al discorso che Robert Kennedy pronunciò all’Università del Kansas nel marzo 1968 - solo tre mesi prima di essere assassinato - ogni volta che sento parlare di manovre fiscali, crescita economica, sviluppo sostenibile, deficit pubblico... Sì, perché credo che siano argomenti che non riguardano solo politici ed economisti.

Ma argomenti che dovrebbero aprire la riflessione alla qualità della nostra vita quotidiana e della convivenza nella società civile. E tematiche di questo genere dovrebbero essere affrontate con uno sguardo più ampio, non limitato a facili contrapposizioni tra economia di mercato e stato sociale o improbabili alternative secche tra crescita dei consumi e povertà incombente.

In particolare, varrebbe la pena di riscoprire la valenza di uno stile di vita e un atteggiamento nei confronti dei beni materiali e del loro uso che - come ha osservato il cardinale Tettamanzi - è «segno di giustizia prima ancora che di virtù»: la sobrietà. Ben più di un semplice accontentarsi di quanto si ha o della capacità di non sprecare, la sobrietà ha una dimensione interiore, abbraccia un modo di vedere la realtà circostante che discerne i bisogni autentici, evita gli eccessi, sa dare il giusto peso alle cose e alle persone.

Sobrietà a livello personale significa riconoscimento e accettazione del limite, consapevolezza che non tutto ciò che ho la possibilità tecnica o economica di ottenere deve forzatamente entrare in mio possesso: la capacità di rinuncia volontaria a qualcosa in nome di un principio eticamente più alto obbliga a interrogarsi sulla scala di valori in base alla quale giudichiamo le nostre e le altrui azioni.

La moderazione non è la tiepidezza di chi è indifferente a ogni cosa e si crogiola in un preteso «giusto mezzo», ma la forza d’animo di chi sa subordinare alcuni desideri per valorizzarne altri, di chi sa riconoscere il valore di ogni cosa e non solo il suo prezzo, di chi orienta la propria esistenza verso prospettive non ossessionate da un incessante «di più», di chi sa dire con convinzione «non tutto, non subito, non sempre di più!». Sobrietà è la forza interiore di chi sa distogliere lo sguardo dal proprio interesse particolare e allarga il cuore e il respiro a una dimensione più ampia.

La «crisi» che viviamo dal 2008 in realtà era già operante da tempo: chi osservava la situazione ecologica, chi non era cieco di fronte alle crisi alimentari, poteva forse prevedere la crisi finanziaria, quindi monetaria ed economica. Ma chi aveva e ha occhi capaci di discernimento poteva però rilevare una «crisi» ben più profonda, una crisi spirituale, una crisi dell’umanizzazione, un avanzare della barbarie.

Dopo la caduta del muro di Berlino c’è stato un abbaglio, una fiducia smisurata nel mercato che sembrava garantire quello stile di vita consumistico cui ci eravamo abituati da qualche decennio... Ora non si tratta di ritornare indietro, ma di tornare al centro sì, all’asse che permette alla politica di rendere possibile ciò che è giusto, ciò che è doveroso, ciò che è necessario al «ben-essere» autentico, di tornare all’asse su cui economia di mercato e solidarietà, competitività e coesione sociale possono interagire ed essere coerenti con la ricerca della qualità della vita umana e della convivenza sociale.

Solo tenendo conto di queste istanze si può uscire dall’attuale mancanza di visione sull’avvenire ed elaborare e realizzare un progetto di società a dimensione umana, altrimenti si continuerà a inoculare germi di sfiducia soprattutto nelle nuove generazioni, che intuiscono la necessità di non ridurre l’uomo a produttore-consumatore ma che tuttavia percepiscono la loro impotenza.

In questa ricerca, giustizia e solidarietà sono elementi che trovano nella sobrietà stimolo e sostegno. E questo, se era vero in una società rurale e dotata di scarsi mezzi, lo è paradossalmente ancora di più in un mondo e in un’economia globalizzati. Infatti, la sobrietà non è solo misura nei propri comportamenti ma anche consapevolezza del nostro legame profondo e ineliminabile con le generazioni che ci hanno preceduto, con quelle che verranno dopo di noi e con quanti, nostri contemporanei, abitano assieme a noi il pianeta.

Nell’usare dei beni di cui dispongo e nell’ambire ad altri, non posso ignorare la necessità di un’equa distribuzione delle risorse: accaparrarsi beni, sfruttare il pianeta, disinteressarsi delle conseguenze immediate e future del proprio agire significa alimentare ingiustizie che, anche se non si ritorcessero contro chi le compie, sfigurano l’umanità e offendono il creato stesso.

Solo una sobrietà così concepita può tracciare un cammino sicuro per la solidarietà umana o, per usare una terminologia cristiana, per una «comunione universale». E questa solidarietà non è tanto il serrare le file da parte di un gruppo sociale per difendersi da un nemico comune o da un’avversità condivisa, non è solo la reazione spontanea e generosa davanti a una sciagura, ma è - a monte di queste cose - la percezione che nostri sodali nell’avventura umana sono quanti ci hanno preceduto e hanno lavorato e lottato per consegnarci condizioni di vita meno precarie, sono coloro che verranno dopo di noi e ai quali riconsegneremo un patrimonio eroso dallo sfruttamento e sono anche, ben più presenti ai nostri occhi, quanti oggi stesso vicini a noi o lontani, non dispongono di beni essenziali per una vita degna e anzi pagano sulla loro pelle i privilegi di cui noi godiamo e che pretendiamo di accrescere continuamente.

Se non dimenticassimo questa solidarietà generazionale e mondiale, la sobrietà ci apparirebbe allora come l’unico stile di vita capace di restituire, a noi stessi per primi, dignità umana e senso dell’esistenza. In questo senso sobrietà e sviluppo non sono antitetici, se per sviluppo non intendiamo la crescita ininterrotta e l’accumulo incessante ma il pieno dispiegarsi delle potenzialità dell’essere umano, un fiorire delle risorse nascoste in ciascuno di noi che la stessa «decrescita» alimenta con la sua ricerca dell’essenziale. Davvero, la sobrietà ci fornisce gli strumenti per misurare noi stessi e il nostro rapporto con «ciò che rende la vita degna di essere vissuta».

Imparare la poverta'

In questi giorni sto finendo un libro regalo che ho apprezzato veramente molto: “Nel deserto il profumo del vento” di Giorgio Gonella, sulla ricerca di Dio nella vita. Mi sta piacendo molto perché mi sta dicendo che questo deserto fisico, quello del Chalbi o quello del Kaisut, che circondano le montagne di Marsabit, aiutano davvero a creare il deserto interiore in cui incontrare Dio. “Chi torna dal deserto sa apprezzare a fondo il valore delle cose più semplici, delle realtà più banali, delle persone più insignificanti. Guarda al mondo con occhi pieni di meraviglia. Ha acuito i propri sensi: vede di più, sente di più, ascolta di più”… Ciò che succede al pellegrino del deserto è un cambiamento a livello della sua visione del mondo (e qui mi vengono in mente le parole di tanti ragazzi che tornavano da un soggiorno missionario a Marsabit…), della sua ottica di fede, del suo sguardo, e questo ha un qualche impatto su tutta la sua personalità. Perché lasciando che i bisogni vitali si manifestino, si viene a contatto con l’”osso” della vita e con lo spirito di Dio, che si manifesta come Compassione universale. E’ una cosa che io ho desiderato fare, quella di lasciare tutto per venire qua. Ma per tanta gente è condizione “naturale”… “Per il povero cristiano delle bidonville d’Africa lo spogliamento, la nudità, il non-avere sono la condizione permanente. Un orrore quotidiano. Se la vita negli ambienti poveri è spesso marcata da mancanza di spazio e da promiscuità, è pure vero che coloro che vivono in stato di oppressione devono ingoiare ogni giorno la solitudine amara della loro sofferenza. Niente crea solitudine come una sofferenza che non riesce ad esprimersi. (…) Che dire della ferita dolorosa del desiderio? Il desiderio è sempre sanguinante. Anzi, dovremmo dire: la folla dei desideri, che sono “legione”. (…) I poveracci hanno questa grande forza: vivono sempre con gli occhi aperti sulla nostra condizione mortale. E senza drammaticità eccessiva: hanno poco da perdere. (…) C’è un “deserto di stracci” in cui la fede si purifica per la forza stessa delle cose. In cui la maturazione spirituale avviene alla scuola della vita. E’ la condizione di beatitudine descritta nel discorso della pianura (Lc 6, 20-23). La vita del povero è segnata dall’assenza, dal vuoto, dal non-essere. E soltanto il vuoto ci purifica dalle falsi immagini di Dio e ci apre alla comunione di vita, un rendersi vulnerabile, un lasciarsi portare. Cose che il povero vive in profondità, in maniera vita e quasi disperata. (…) L’esperienza dei poveri nel “deserto di stracci” ci fa scoprire Dio come “vento di compassione”, vivente e attivo nel cuore della storia dei vinti, degli sconfitti. Dio è compassione universale. La sua compassione “muove il sole e le altre stelle”. (…) Quando parliamo di compassione , ci riferiamo ad una forma particolare di amore, quella che nasce dall’impotenza. Non è l’amore del benefattore che fa piovere benedizioni dall’alto, né l’amore generoso che risolve i problemi dell’altro, né l’amore spettacolare che fa miracoli. La compassione è un vento di solidarietà sottile, ma profondo, che nasce da una condizione d’uguaglianza. E’ la mano sulla spalla di chi soffre accanto a te. Di chi è impotente come te e con te. E’ vento di comunione tra coloro che soffrono la stessa fame e la stessa sete. La compassione è l’amore del povero”.
Questo non è un elogio alla miseria: sappiamo che i poveri, individualmente, possono essere anche meschini, brutali, egoisti, approfittatori, a volte feroci. Ma quella dimensione di vuoto che sto percependo qui e che non ho mai percepito da nessun’altra parte. E siamo davvero sicuri che non ci siano più poveri nella nostra bella Italia? E non è un essere povero una persona che soffre, che è disorientata dal male o che è sola? Forse però non c’è più l’usanza di prendere questi momenti come “buoni”. Ci spaventa a morte sperimentare il bisogno, la mancanza, il vuoto, l’assenza,… il deserto. Che però è il terreno dove Dio si manifesta, dove la Provvidenza ha la libertà di agire e di rivelare il volto di Dio.
Quando sono venuta qui a Marsabit, ho scelto di non avere il frigorifero, la TV, l’automobile, internet in casa. Desidero e ho sempre desiderato una vita semplice e ora sono consapevole che questo desiderio veniva dal cuore di Dio perché io potessi fare esperienza di Lui in modo diverso, profondo, quasi umano. Mi dicevo: “Se ho tutto, non avrò bisogno degli altri. E io sono venuta qui per costruire comunione. DEVO avere bisogno degli altri, cominciando dalle cose materiali”. Tuttavia la prima povertà che ho vissuto quando sono arrivata qui non è stata legata alle cose materiali, ma all’essere sola. La solitudine mi ha spaccato. E’ stata la fessura dove Dio ha potuto entrare in modo diverso. O scappi e ti tormenti o ti fidi. Ti fidi di Lui. Ti fidi che ci sia una Provvidenza che si prende cura di te, che agisce nelle tue povertà (lo stesso pensiero l’ho ritrovato negli scritti della Comunità Cenacolo nell’ultimo numero della loro rivista “Risurrezione”), che ti fa prossima agli altri. Ma da sola non l’avrei mai imparato. Alcune delle persone con cui condivido la mia vita qui me lo stanno insegnando. E’ difficile. Ma quando il cuore finalmente si fida, si aprono orizzonti nuovi.
Come per esempio quando venerdì scorso Michael cercava di organizzare la sua venuta a Marsabit per andare a parlare al vescovo, ma da Maikona non ci sono trasporti sicuri, solo camion che passano occasionalmente di notte. Per un’emergenza al dispensario, la notte della partenza non è riuscito ad andare in paese e vedere se ci fosse un camion pronto per partire. E io intanto pregavo il Signore: “Non abbiamo la macchina, Signore. Abbiamo scelto di non averla. Questa nostra povertà sia per te terreno buono per mostrare la tua paternità verso di noi. Prenditi cura di noi. Ma comunque sia fatta la tua volontà”. Voi ci crederete che, dopo una notte insonne con il malato al dispensario, Michael è riuscito a partire alle 7 del sabato mattino con un fuoristrada che passava da Maikona e che in due orette l’ha portato a Marsabit. E la stessa cosa è successa la domenica pomeriggio, con un camion che l’ha riportato alla sua missione, pronto per ricominciare il lavoro puntuale il lunedì mattina. Bello, no?

martedì 12 luglio 2011

Chi non muore...


Il vento si sta riposando un poco stasera e lascia riposare anche noi per un breve tempo, dalla polvere, che invade Marsabit town e i nostri polmoni, case e scarpe, come la nebbia in pianura padana a novembre.
Il nostro cortile è quieto: non c’è anima viva in giro. I ragazzi della scuola sono ormai a casa, a scrivere sui loro quaderni a lume di lampada a petrolio come me, da 10 giorni a questa parte; le mamme ormai di ritorno dalla fonte (o dal camion cisterna privato che vende 20 litri di acqua al prezzo di un quarto del salario giornaliero di un manovale!) sono intente ad accendere il fuoco e cucinare mais e fagioli; gli animali – capre e mucche sempre più pelle e ossa, e in questi giorni anche i cammelli – sono già stati guidati dai sapienti bastoni dei loro pastori nei loro ricoveri per la notte.

Ripenso agli ultimi due mesi e vedo che la mia vita è cambiata ancora; dopo la “fuga” della segretaria della nostra scuola e la scoperta del suo “tasso di corruzione” (a discapito della scuola, ahimè!) e di come ha costruito dal niente una bella villa per la sua famiglia… ecco che il lavoro dell’amministratrice si è allargato e mi sono ritrovata segretaria alla ricerca quasi disperata di mettere in ordine tasse scolastiche, ricevute e quant’altro… E questo tra una festa a sorpresa per il mio compleanno (con la squadra di calcio di Maikona al completo!) e un viaggio a Maikona, tra la preparazione per la festa dei genitori nella nostra scuola e l'inaugurazione dell'asilo, tra un incontro di studenti di Azione Cattolica (a Sololo, Diriba Gombo e Marsabit) e una trasferta nelle verdi colline di Embu, dove la squadra di calcio dei giovanissimi della nostra regione, con Mike allenatore, ha partecipato ad un torneo…, tra una visita alla Mariopolis dei focolarini vicino a Thika e progetti per il futuro...

martedì 24 maggio 2011

Risurrezioni

Non so se è perché siamo nel tempo di Pasqua o perché al di sotto dell’equatore la semplicità crea spazio per la fede caparbia e ostinata, compagna di quella speranza che vede speranza anche quando umanamente si è ciechi… fatto sta che in questo periodo tocco con mano luce di Risurrezione, come Tommaso ha fatto (o avrebbe voluto fare!) con Gesù Risorto. Sono i “miracoli” dei poveri, non quelli poveri di soldi o di proprietà, ma quelli che si sentono poveri davanti a Dio: “anawim” li chiama l’Antico Testamento e Maria ne è il simbolo.
Tra la storia di Adano che ho continuamente tra le mani e altre di cui vengo a conoscenza, non ho più tanti dubbi sull’azione dello Spirito di Dio su questa terra, se non sempre direttamente, tramite altre persone. Che diventano testimoni e facilitatori di risurrezione. Parte del sogno di Dio.
Ho conosciuto Erik (lasciatemelo chiamare così) non tanto tempo fa. Primo di tre fratelli cresciuti in città, a Nairobi… beh non in centro, in periferia… quasi in quelli che noi chiamiamo slum o baraccopoli e che lui ha sempre chiamato casa. Il papà, un bel giorno, torna a casa e dice alla mamma che vorrei sposare una seconda moglie. La mamma rifiuta, ben sapendo che questo lo allontanerà da lei e lei dovrà occuparsi di se stessa e dei suoi tre frugoletti da sola. E così il papà sparisce dalla circolazione e va ad abitare con la nuova moglie. Non si farà mai più vivo, neanche quando i suoi figli saranno grandi. La mamma ce la mette tutta, e i ragazzi crescono bene, ben educati, con pochi soldi (lei lavora come cuoca per una famiglia di Nairobi) ma responsabili. La mamma è severa: tutte le domeniche a messa, non si sgarra… Ed è questo suo attaccamento alla parrocchia e a Dio anche nei momenti problematici della vita (non pensate che vivere in una baracca di metallo di due metri per tre in quattro persone con due letti, senza bagno e senza acqua, sia sempre così accomodante!) che salverà la vita dei suoi figli, quando lei nel giro di poco tempo si ammalerà di quella malattia là e morirà di tubercolosi in un ospedale pubblico, lasciando la famigliola in mano al primogenito di appena 16 anni. All’improvviso i parenti che durante la nascita dei bimbi e la malattia della mamma se ne sono sempre stati defilati facendosi gli affari propri, arrivano alla carica per spartirti i due scellini che lei si lasciata dietro… Senza di lei, i ragazzi non possono più pagare l’affitto della loro “casetta”… Sembra che Erika debba smettere la scuola superiore (era al secondo o al terzo anno) per occuparsi dei suoi due fratellini. Il futuro è nero, il presente ancora di più… Cercano di mettere insieme le forze, ma come se non bastasse un giorno, mentre i tre fratelli erano a scuola, viene appiccato il fuoco al loro quartiere. Sono baracche, abusive: i proprietari del terreno lo vogliono vendere per costruirci sopra una pompa di benzina (che oggi è attiva e funziona!)… Il fratello di Erik, uscito prima da scuola, vede il fuoco e cerca di salvare il possibile, alcuni libri, pochi vestiti… Tutto il resto, documenti, foto, storia di una famiglia se ne va in fumo in pochi minuti.
Ed è in questo momento di disperazione che entra in atto la “Jumuya” o “piccola comunità del Vangelo”, ossia quel gruppo di cristiani, soprattutto vicini di casa, che si trovano insieme una volta alla settimana e leggono il Vangelo della domenica e cercano di essere testimoni dell’Amore di Cristo. Conoscono Erik e la sua famiglia, segnalano il caso al parroco che si attiva prontamente e propone ai ragazzi di entrare in un istituto dove si prenderanno cura di loro. Forse non potranno restare insieme, ma avranno il pasto assicurato. Erik e i suoi fratelli ci pensano bene, ma non vogliono perdere l’unica cosa che hanno: la loro unità! Giusto… il parroco propone un’altra soluzione: costruire una casetta su un terreno della parrocchia e darla ai ragazzi perché possano crescere insieme, con l’assistenza di alcuni cristiani della parrocchia. A Erik non piace parlare di quel periodo però ripete continuamente che senza l’aiuto dei cristiani e di Maria non ce l’avrebbero fatta. Da quando la sua mamma non c’è più dice di essere stato adottato da un’altra mamma: quella Celeste. Ora Erik è laureato e nel suo lavoro ha sempre un occhio sulle persone più disagiate. Non è solo un modo per ricambiare quel che è stato fatto per loro, ma la sua vocazione. Gli altri due fratelli sono entrambi sistemati e ora la casetta della parrocchia è usata da altre persone in difficoltà!


Quanti miracoli sono tra noi! E il Signore Risorto continua a parlare, anche tramite quella canzone tratta dal “Principe d’Egitto” che accompagna la grande uscita di Mosè e del suo popolo dalla terra del faraone. Un canto che mi segue, suggestiona, ispira, dà coraggio e stupore dall’anno scorso, quando durante la mia prima vacanza in Italia, mi sono concessa alcuni giorni di silenzio durante i nostri adorati “week end” di Susa che scandivano i miei mesi italiani. Fa così:


“Molte notti noi pregammo senza chiederci
Se in quel buio fosse già la nostra verità.
Paura non avrai, la fede sa proteggerci,
la speranza può cambiare la nostra realtà.

Vedrai miracoli, se crederai.
La fede non si può fermar…
Quanti miracoli sono tra noi
e condividerli potrai,
potrai se crederai

Questo è il tempo in cui sperare non è facile
e la gioia che c’è in noi nel vento vola via.
Ed ora sono qui,
il cuore così fragile,
cerco in me la forza che non ho avuto mai.

Vedrai miracoli, se crederai.
La fede non si può fermar…
Quanti miracoli sono tra noi
e condividerli potrai,
potrai se crederai.
Vedrai miracoli, se crederai.
La fede non si può fermar…
Quanti miracoli sono tra noi
e condividerli potrai,
sì, potrai…
potrai se crederai…
potrai se crederai”.

E’ strano, ma anche qui che di “Mosè-salvatori di popoli” non ne ho visti molti, la vita di alcune persone continua a cantare questa canzone. Il rumore del mondo non riesce a nascondere la melodia ad orecchi in ricerca di musica d’autore.
Ogni risurrezione è un fatto d’amore.
Come la piccola vita di Rael. Ma questa... e' un'altra storia!

Risurrezioni

Non so se è perché siamo nel tempo di Pasqua o perché al di sotto dell’equatore la semplicità crea spazio per la fede caparbia e ostinata, compagna di quella speranza che vede speranza anche quando umanamente si è ciechi… fatto sta che in questo periodo tocco con mano luce di Risurrezione, come Tommaso ha fatto (o avrebbe voluto fare!) con Gesù Risorto. Sono i “miracoli” dei poveri, non quelli poveri di soldi o di proprietà, ma quelli che si sentono poveri davanti a Dio: “anawim” li chiama l’Antico Testamento e Maria ne è il simbolo.
Tra la storia di Adano che ho continuamente tra le mani e altre di cui vengo a conoscenza, non ho più tanti dubbi sull’azione dello Spirito di Dio su questa terra, se non sempre direttamente, tramite altre persone. Che diventano testimoni e facilitatori di risurrezione. Parte del sogno di Dio.
Ho conosciuto Erik (lasciatemelo chiamare così) non tanto tempo fa. Primo di tre fratelli cresciuti in città, a Nairobi… beh non in centro, in periferia… quasi in quelli che noi chiamiamo slum o baraccopoli e che lui ha sempre chiamato casa. Il papà, un bel giorno, torna a casa e dice alla mamma che vorrei sposare una seconda moglie. La mamma rifiuta, ben sapendo che questo lo allontanerà da lei e lei dovrà occuparsi di se stessa e dei suoi tre frugoletti da sola. E così il papà sparisce dalla circolazione e va ad abitare con la nuova moglie. Non si farà mai più vivo, neanche quando i suoi figli saranno grandi. La mamma ce la mette tutta, e i ragazzi crescono bene, ben educati, con pochi soldi (lei lavora come cuoca per una famiglia di Nairobi) ma responsabili. La mamma è severa: tutte le domeniche a messa, non si sgarra… Ed è questo suo attaccamento alla parrocchia e a Dio anche nei momenti problematici della vita (non pensate che vivere in una baracca di metallo di due metri per tre in quattro persone con due letti, senza bagno e senza acqua, sia sempre così accomodante!) che salverà la vita dei suoi figli, quando lei nel giro di poco tempo si ammalerà di quella malattia là e morirà di tubercolosi in un ospedale pubblico, lasciando la famigliola in mano al primogenito di appena 16 anni. All’improvviso i parenti che durante la nascita dei bimbi e la malattia della mamma se ne sono sempre stati defilati facendosi gli affari propri, arrivano alla carica per spartirti i due scellini che lei si lasciata dietro… Senza di lei, i ragazzi non possono più pagare l’affitto della loro “casetta”… Sembra che Erika debba smettere la scuola superiore (era al secondo o al terzo anno) per occuparsi dei suoi due fratellini. Il futuro è nero, il presente ancora di più… Cercano di mettere insieme le forze, ma come se non bastasse un giorno, mentre i tre fratelli erano a scuola, viene appiccato il fuoco al loro quartiere. Sono baracche, abusive: i proprietari del terreno lo vogliono vendere per costruirci sopra una pompa di benzina (che oggi è attiva e funziona!)… Il fratello di Erik, uscito prima da scuola, vede il fuoco e cerca di salvare il possibile, alcuni libri, pochi vestiti… Tutto il resto, documenti, foto, storia di una famiglia se ne va in fumo in pochi minuti.
Ed è in questo momento di disperazione che entra in atto la “Jumuya” o “piccola comunità del Vangelo”, ossia quel gruppo di cristiani, soprattutto vicini di casa, che si trovano insieme una volta alla settimana e leggono il Vangelo della domenica e cercano di essere testimoni dell’Amore di Cristo. Conoscono Erik e la sua famiglia, segnalano il caso al parroco che si attiva prontamente e propone ai ragazzi di entrare in un istituto dove si prenderanno cura di loro. Forse non potranno restare insieme, ma avranno il pasto assicurato. Erik e i suoi fratelli ci pensano bene, ma non vogliono perdere l’unica cosa che hanno: la loro unità! Giusto… il parroco propone un’altra soluzione: costruire una casetta su un terreno della parrocchia e darla ai ragazzi perché possano crescere insieme, con l’assistenza di alcuni cristiani della parrocchia. A Erik non piace parlare di quel periodo però ripete continuamente che senza l’aiuto dei cristiani e di Maria non ce l’avrebbero fatta. Da quando la sua mamma non c’è più dice di essere stato adottato da un’altra mamma: quella Celeste. Ora Erik è laureato e nel suo lavoro ha sempre un occhio sulle persone più disagiate. Non è solo un modo per ricambiare quel che è stato fatto per loro, ma la sua vocazione. Gli altri due fratelli sono entrambi sistemati e ora la casetta della parrocchia è usata da altre persone in difficoltà!


Quanti miracoli sono tra noi! E il Signore Risorto continua a parlare, anche tramite quella canzone tratta dal “Principe d’Egitto” che accompagna la grande uscita di Mosè e del suo popolo dalla terra del faraone. Un canto che mi segue, suggestiona, ispira, dà coraggio e stupore dall’anno scorso, quando durante la mia prima vacanza in Italia, mi sono concessa alcuni giorni di silenzio durante i nostri adorati “week end” di Susa che scandivano i miei mesi italiani. Fa così:


“Molte notti noi pregammo senza chiederci
Se in quel buio fosse già la nostra verità.
Paura non avrai, la fede sa proteggerci,
la speranza può cambiare la nostra realtà.

Vedrai miracoli, se crederai.
La fede non si può fermar…
Quanti miracoli sono tra noi
e condividerli potrai,
potrai se crederai

Questo è il tempo in cui sperare non è facile
e la gioia che c’è in noi nel vento vola via.
Ed ora sono qui,
il cuore così fragile,
cerco in me la forza che non ho avuto mai.

Vedrai miracoli, se crederai.
La fede non si può fermar…
Quanti miracoli sono tra noi
e condividerli potrai,
potrai se crederai.
Vedrai miracoli, se crederai.
La fede non si può fermar…
Quanti miracoli sono tra noi
e condividerli potrai,
sì, potrai…
potrai se crederai…
potrai se crederai”.

E’ strano, ma anche qui che di “Mosè-salvatori di popoli” non ne ho visti molti, la vita di alcune persone continua a cantare questa canzone. Il rumore del mondo non riesce a nascondere la melodia ad orecchi in ricerca di musica d’autore.
Ogni risurrezione è un fatto d’amore.
Come la piccola vita di Rael. Ma questa... e' un'altra storia!

venerdì 6 maggio 2011

Italy!


E bagno italiano fu… con un po’ di riposo tra scenari diversi, tra colline di Langa che sbocciavano alla primavera, mare e uliveti di Molfetta (dove abbiamo incontrato don Paolo, la sua accogliente famiglia, i suoi giovani in procinto di atterrare a Marsabit per un’estate diversa e la sua attiva parrocchia!), caldo e verde di Verona in compagnia di suor Pierina e del nettare del Vinitaly, neve di montagna (per Michael la prima volta… come ritornare bambini a 30 anni!) e sorrisi e vite di persone che rimangono care, amiche e vicine nonostante la lontananza fisica. Giorni condivisi tra incontri di gruppi, cresimandi, ragazzi del catechismo, bambini della scuola, un tiro al pallone appena possibile, gruppi missionari, catechisti, incontro con il nuovo vescovo Mons. Lanzetti e la firma del rinnovo della convenzione fino al 2014, interviste per il dvd dell’Azione Cattolica, polentata di Karibuni (con una nutrita combriccola somala che ci ha fatto capire quanto il mondo non ha più barriere, nonostante in tanti gliene vogliano mettere di nuovo, e in un certo senso ci stanno riuscendo!), un po’ di burocrazia e visite mediche e tempo passato in famiglia.

Stare, camminare, viaggiare, scoprire la neve e il mare, salire sulla Mole, sentirsi “turisti” a casa propria o abitanti di lunga data anche se arrivati solo da un giorno… Questo periodo di soggiorno nel Bel Paese, dal 23 marzo a metà aprile, è stato un momento importante per me e Michael, in cui ci siamo dovuti confrontare insieme con una realtà che ci ha fatto invertire le parti tra straniero e cittadino. Nonostante le premesse non fossero state così felici e fino a poche ore prima della partenza dal Kenya fossimo rimasti sulle spine per la fatidica carta d’ingresso per Michael nel “primo mondo”!

La paura del diverso, che continua ad essere venduta (o regalata) quotidianamente dai mass media e da tanti politici nella nostra Italia, a cui avevo preparato Michael, ci ha tolto il fiato fin dal primo momento in cui abbiamo messo piede nell’Ambasciata italiana. Nonostante le lettere di invito e di raccomandazione dei nostri due vescovi di Alba e di Marsabit, l’assicurazione sanitaria pagata e ripagata, la mia presenza nel viaggio di andata e ritorno e l’assicurazione dell’alloggio e delle spese coperte…, la risposta dell’Italia è stata NO. Michael non può entrare. E tanti come lui con il visto negato. Cavilli burocratici, che ci prendono alla sprovvista, vista la facilità con cui l’anno scorso Eva Darare aveva ottenuto il suo visto per l’Italia. Manca il timbro del Nunzio apostolico (il rappresentante del Vaticano in Kenya!), ci dicono. La Chiesa, nonostante tutto, a livello burocratico, è ancora uno Stato, rispettato e “corteggiato”. Per questa volta dico: “meno male”! Comunque, corse matte fino a 6 ore prima della partenza quando, grazie all’aiuto e al paterno sostegno del nostro vescovo Kihara, che la Provvidenza ha portato a Nairobi proprio in quei giorni, siamo riusciti ad avere la chiave per passare la porta stretta. Due notti passate a pregare, sveglia prima dell’alba per evitare il tremendo traffico della capitale ed iniziare le corse tra un ufficio e l’altro, il pianto finale al mattina della partenza: “Ci abbiamo provato, ma non ce l’abbiamo fatta, non c’è più tempo” e poi, invece, la Provvidenza agisce (anche Lei ha i suoi tempi, si sa!): grazie ad una telefonata dalla Nunziatura all’Ambasciata, robe da pezzi grossi, e il permesso del nunzio accordato sulla fiducia del suo vescovo Kihara… eccoci uscire alle 16 del 22 marzo da quel piccolo territorio dello Stato italiano nel centro di Nairobi con in tasca la chiave d’ingresso. Ultime compere, non stiamo più nella pelle dalla felicità, camminiamo per le strade fangose del sobborgo di Nairobi dove vive il fratello di Michael come se fossimo in piazza Duomo a Milano e i nostri cuori sono già in volo, per ringraziare Colui che ha reso possibile tutto questo.
Premesse al nostro soggiorno non così rassicuranti. Un po’ di freddo e ghiaccio, ancora, come primo impatto in alcuni incontri in Italia: “Forse la gente ha paura di me, non mi sorride, non mi guarda negli occhi, ha paura a parlare inglese, perché?”. “Pole pole, Mich… siamo langhetti noi, un po’… “muntagnin”, dacci tempo!”. E il tempo arriva. Sarà per il sorriso che Michael non risparmia a nessuno, sarà per la simpatia che alcuni hanno per le persone africane o forse per il senso di fratellanza e comunione che viene a galla dopo i primi minuti: esce il sole e il giacchio si scioglie, soprattutto con i bambini (direi soprattutto bambinE!!!). Tanto che ci dispiace proprio partire, ritornare, lasciare le cure e il buon cibo di mamma… Ma Erika ci aspetta a Nairobi, per salutarci dopo la sua esperienza di tre mesi nel Marsabit, anche lei con il suo bagaglio di avventure, imprevisti, amicizie nuove, incontri particolari… da raccontare o da custodire.
Dopo la sua partenza e alcune visite ad amici di Michael, mi preparo a ritornare a Marsabit per condividere la settimana santa e la Pasqua con la comunità dell’altopiano e dei suoi dintorni. Lascio le valigie, troppo ingombranti per il viaggio, alla procura di Nanyuki, con preghiera di spedirle su una macchina appena possibile e accetto un passaggio su una macchina della diocesi, molto affollata ma calorosa. Michael continua una full immersion a Nairobi, con gli altri laici missionari del suo gruppo.
Pasqua serena, pranzo con Darare e i suoi variegati ospiti, campo scuola per adolescenti in parrocchia con 120 ragazzi provenienti dalla nostra grande parrocchia, preparazione per riprendere il lavoro alla scuola…
E…siamo benedetti dalla pioggia, un’intera nottata con grande temporale. Pioggia attesa da tanto, pioggia che doveva essere lunga un mese e si limita ad una notte. La gente comunque esulta. Non sia che, proprio quella notte, Michael ha programmato il suo viaggio di ritorno a Marsabit e poi a Maikona con il famoso bus che ci collega ad Isiolo. Il fango è troppo; già in forte ritardo il bestione si impantana e lascia a piedi per ore i suoi ospiti, a 20 km da Marsabit. Parecchi tra i fortunati viaggiatori si incamminano a piedi e dopo tre ore nel fango raggiungono il centro. E così anche Michael. Una bella doccia (beh “doccia” si fa per dire, senza luce elettrica per quasi un mese, non posso pompare l’acqua dalla cisterna e quindi… lavaggio a pezzi!), il chai bollente, un po’ di riposo… e ci godiamo le ultime ore di “vacanza” insieme. Consapevoli di avere una Certezza dentro, che mai avevamo sentito così forte. Certezza che ci impegna, ci fa felici e ci spinge a ringraziare.

Il tempo di solitudine, dopo la partenza di Michael, non dura troppo. Festeggiamo il matrimonio di Joseph, mio vicino di casa e impiegato nei progetti di sviluppo della diocesi, con Stella, figlia del catechista di Kargi, tra canti, balli, organizzazione un po’ “holliwoodiana” e una buona capra! E poi… alla riapertura delle scuole, ecco il nostro piccolo nomade Adano tornare dal deserto con tante cose da raccontare, ma senza un posto dove stare, fino a quando il collegio non riaprirà (a discrezione del preside, che sembra si sia dimenticato di ordinare il cibo e la legna per il fuoco, ops!). Il letto si prepara in un batter d’occhio e divento mamma fino a data da destinarsi.
Come inizio del nuovo trimestre non c’è male!

sabato 5 marzo 2011

L'anno che e' venuto...

Che il tempo in questo nuovo anno scorra più veloce e in modo più uniforme mi sembra proprio una realtà… tant’è che, anche senza essermi presa una vacanza ufficiale dalla riflessione scribacchina, alla fine il blog è rimasto insabbiato (oppure congelato, a seconda dei continenti da dove lo leggete!) per qualche mesetto…
Il 2011 ha aperto il suo tempo con alcune piccole novità, che han portato sorrisi, responsabilità, preoccupazioni, solitudini nuove… Uno dei maggiori cambiamenti è che… da gennaio il nostro cortile appare vuoto: dove una volta mi arrabbiavo per le scorribande dei bambini dei vicini sopra le mie tenere pianticelle di zucchine, per il loro schiamazzare continuo, per la loro continua presenza in casa mia a colorare, disegnare, farsi raccontare, cucinare, mangiare… ecco che ora tutte queste cose sono solo bei ricordi, che il sabato pomeriggio e la domenica portano un po’ di rimpianto…
Con il nuovo anno scolastico infatti per il “capobanda” Robinson, che l’anno scorso frequentava al Memorial la seconda elementare, è stato deciso dai genitori che solo il collegio poteva temprare il suo carattere birichino e così ora studia a Nanyuki, mentre la sua mamma (che nel frattempo ha avuto un altro bimbo), il papà (autista dei nostri uffici diocesani) e i due fratellini se ne stanno buoni buoni in casa!
Tuttavia una più grande mancanza preme sul mio cuore: quella di Flora e di Umulat, che erano diventati un po’ i “miei” bimbi, per il tanto tempo che trascorrevamo insieme a casa e fuori. Il loro papà Hilary ha dato le dimissioni dall’Ufficio “Giustizia e Pace” della nostra diocesi ed ha trasferito la famiglia a North Horr, suo villaggio originario, dove già le due primogenite studiavano dallo scorso anno. Un camion ha portato via dalla loro casa, a due passi dalla mia, tutti i loro vestiti e le loro cose e Flora ora sta imparando a scrivere e a leggere in prima elementare nel bel mezzo del deserto!
Mi manca anche tanto il sorriso e la corsa traballante di Botu, la cuginetta, che a braccia aperte, dopo un primo momento di “conoscenza”, mi veniva incontro per essere presa in braccio… Averli tutti a tre in giro per casa era rumoroso, ma decisamente “pieno”!


Un’altra novità del 2011 è che è iniziato sotto le stelle di Kargi con mia mamma, che è venuta insieme ad altri giovani e meno giovani in Kenya per una decina di giorni. E’ stato molto bello vederla contenta di conoscere e incontrare tante persone che mi vogliono bene qui a Marsabit. E poi a Kargi, siamo riuscite anche ad andare nella capanna di mama Curreo, la mia “mamma africana” ed è stato veramente un incontro… di mamme! A te, mamma, grazie per aver avuto il coraggio di affrontare un viaggio così lungo e inusuale per la nostra famiglia, lasciando papà e figlio a casa da soli, per venire a vedere dove tua figlia, quella più matta, vive, lavora e cerca di servire gli altri per costruire un futuro comune e ridurre le distanze…
Un’altra nuova buona, che è arrivata carica di responsabilità e di impegno, è l’incarico di amministratrice per la scuola “Fr. John Memorial”, dove da settembre 2009, presto il mio servizio come insegnante di religione per alcune classi. La nomina non è arrivata come fulmine a ciel sereno, ma preparata da discussioni e proposte, che mi han fatto meditare e alla fine accettare. Quindi ora non solo più insegnamento, ma attenzione alle finanze, a quel che manca alla cucina della mensa, ai salari dei maestri, alle finiture della costruzione del nuovo asilo (già strapieno di bimbi!!!),
ai buoni rapporti con i genitori e con il preside, che ogni tanto si dimentica a casa un po’ di grinta e di autorità… La sfida è avvincente, anche se non rimane per me più tanto tempo libero e troppa disponibilità per viaggiare nel deserto per incontrare i giovani come ho fatto negli ultimi due anni!
Sentiti i pareri dei due vescovi, mons. Kihara di Marsabit e mons. Lanzetti di Alba, la mia idea e desiderio di rinnovare la “convenzione” per altri tre anni è diventata ormai una certezza. Ne sento il bisogno per dare una continuità a ciò che abbiamo iniziato a fare insieme nella scuola, già particolarmente provata dal cambio di quattro diverse amministrazioni nel giro di due anni (così come in parrocchia d’altronde!)… E ne sento il bisogno e desiderio anche per me, anche se questo rischia di sradicarmi dall’Italia e dagli amici italiani sempre di più e di dover riconsiderare il significato del termine “sentirsi a casa”. Rimango bianca di pelle, ma il cuore cammina e desidero, se volontà di Dio, che continui a camminare su queste strade, almeno per un altro po’. E desidero che non sia da sola a farlo, ma insieme a te, che stai imparando a conoscermi, ad amarmi e ad accogliere il mio fragile e confuso amore, con una libertà e adultità che quasi non pensavo esistessero più!
E poi tra poche settimane, un bagno italiano tra neve e freddo (a quanto pare!), ma di certo scaldato dalla presenza di amici, famiglia e incontri che daranno frutto, ancora una volta, nei cuori di ciascuno, come legame di comunione tra di noi e con Dio.