mercoledì 2 dicembre 2009

Marsabit pastoral assembly

Si è tenuta da martedì 24 a giovedì 26 novembre l’annuale tre giorni diocesana dedicata alla verifica dell’anno pastorale trascorso e alle pianificazione per quello appena iniziato. Partecipanti: il vescovo Mons. Peter Kihara, tutti i sacerdoti che prestano il loro servizio nella diocesi di Marsabit, le suore e alcuni rappresentanti dei laici (chairman del Consiglio parrocchiale, catechista…) per ogni parrocchia. In più tutti coloro che lavorano negli uffici diocesani: Hilary per “Giustizia e pace”, Joseph per il coordinamento sanitario diocesano (infatti diocesi e parrocchie gestiscono ancora molti dispensari e due ospedali privati), Eva Darare per il coordinamento dei gruppi femminili diocesani, Mark per i “water projects” e James, che è il coordinatore di tutti gli uffici.
La diocesi di Marsabit in questi prossimi cinque anni (2009-2014) si prepara al “Golden Jubilee”, ossia si prepara a festeggiare i suoi primi 50 anni! Le aree di intervento e cura per questi anni saranno quattro: leadership (cioè formare leader cristiani per le comunità e la società per permettere ai laici un maggior coinvolgimento nella vita parrocchiale e di fede), fede (soprattutto puntando sulla conoscenza della Parola di Dio e sull’approfondimento del legame tra fede e vita, fede e azione), self-supporting (ossia tutto ciò che riguarda l’autosostentamento dei gruppi cristiani e delle parrocchie e della diocesi: la partecipazione dei cristiani alle spese della parrocchia e così via) e social relevance (toccando i temi di giustizia e pace, riconciliazione, aborto, cultura e fede, educazione civica, dignità della vita umana…)… Ogni parrocchia l’anno scorso ha stilato il suo piano di intervento a proposito di questi quattro temi, proponendo alcune attività sia a livello zonale sia parrocchiale. Beh, non dappertutto ha funzionato un piano così… “concreto”… e nella verifica infatti abbiamo proposto di scegliere un versetto della Bibbia o uno slogan riassuntivo per facilitare la comprensione da parte della gente.
La nostra assemblea era piuttosto variegata… Circa 10 le lingue parlate, senza contare le lingue locali della zona… E’ stato bello ritrovarsi e confrontarsi sul modo di fare pastorale e sui principi di fondo che ci supportano e ci stimolano… Il secondo giorno è stato di formazione. Tema scelto: Islam. Dato che il contesto in cui lavoriamo è prettamente musulmano (almeno qui nel nord del Kenya), un missionario comboniano che presta il suo servizio in Egitto ci ha aiutato a capire i fondamenti di questa religione e le implicazioni sociali e concrete che anche qui si fanno sentire. Pur avendo studi l’Islam per sommi capi all’università, mi ha molto interessato ripercorrere certi temi, come il matrimonio e la condizione della donna, forse perché ora posso approcciarli con occhi diversi, avendo conosciuto alcune esperienze e volti concreti.
Il matrimonio nell’Islam è un contratto tra un uomo e una donna. Contratto nel senso commerciale del termine, come quando io vado a comprare un kg di patate. Io sono dovuta a pagare una giusta somma per le patate che voglio e il venditore è obbligato a fare un prezzo giusto e consegnarmi della buona merce. Ecco così succede per il matrimonio: la donna “vende” il suo corpo all’uomo e gli permette così di avere figli (che saranno di sua proprietà). L’uomo, dalla sua parte, è tenuto a provvedere alla casa, al cibo e alla dote (oro pagato direttamente alla donna). La moglie non può divorziare (può chiedere il divorzio solo dopo un anno intero in cui il marito non le fornisce cibo e casa), ma il marito può divorziare in ogni momento anche senza ragione.
Ovviamente, una donna musulmana non può sposare un non –musulmano (beh, questo nei paesi islamici, ma qui succede: come per esempio alla funzione a cui parteciperemo a Manyatta Jillo il 20 dicembre, Stephen sposerà Dido, che era musulmana – per lui si è “fatta” cristiana – e pure la sua famiglia!). Se un ragazzo musulmano sposa una cristiana, è quasi certo che lei si convertirà. L’Islam permette la poligamia, ma non più di 4 donne per volta (più le amanti, ma quelle non rientrano nel conto!). Il matrimonio non è solo un diritto per i musulmani, ma è un dovere: se rimani celibe (cosa che loro non capiscono), stai vivendo contro la legge di Dio perché è dovere di tutti contribuire alla procreazione. Sei utile alla società solo se sei sposato/a. In realtà alcune sure del Corano ci dicono che uomo e donna sono stati creati partendo da una sola anima. E perciò quando ti sposi riformi l’unica anima da cui siete stati creati (e allora perché la poligamia?!?)… perciò l’uomo deve trattare la donna con giustizia. Beh, questi sono solo alcuni spunti… fin troppo superficiali. Ed è vero che qui in Marsabit, eccetto poche eccezioni di Islam politico (quello che chiamano “infiltrazione”: si costruiscono scuole coraniche, moschee, per prendere il potere poco per volta), l’Islam che si vive è quello… popolare, un po’ adattato, mediato, l’Islam della gente. Che alla fine dei conti, quando si tratta di questioni vitali, segue la cultura tradizionale Gabbra o Borana, lasciando da parte Islam o Cristianesimo!
In questo anno vissuto a Marsabit non ho mai riscontrato nessuna resistenza o repulsione da parte dei musulmani, anzi diverse persone sono amiche e tanti ragazzi/e della scuola… diversi mi vengono anche a trovare a casa, leggono i giornali cattolici che regalo loro, con il permesso dei loro genitori…
Ma questo non vuol dire ch, di quando in quando, non si possano incontrare in Marsabit città arabi con la lunga barba e il vestito bianco e il turbante (anche se non è venerdì), venuti per predicare e riportare l’Islam al suo originario splendore…

giovedì 19 novembre 2009

Nuovo indirizzo postale

ATTENTION PLEASE:

Da oggi ho un nuovo indirizzo postale:
From today, please use my new postal address:

PATRIZIA MANZONE
P.O. BOX 245
60500 MARSABIT (KENYA)

Grazie, thanks!
A presto!
Buona festa di Cristo Re!

venerdì 13 novembre 2009

Come l'albero del Lookho

Arrivo da un ricco pomeriggio trascorso con le donne di Gar Qasa, cappella poco fuori Marsabit, dove sono andata con Sister Pierina, suora comboniana incaricata dei gruppi femminili parrocchiali.
In questi ultima settimana non siamo andati a scuola perché gli studenti di Standard 8 (la terza media “italiana”) hanno avuto gli esami finali ed è prassi in Kenya che gli altri alunni e i maestri stiano a casa. Oggi pomeriggio (venerdì) invece sono iniziati gli esami finali per tutte le altre classi. L’anno scolastico volge ormai al termine: sabato prossimo è in programma la messa finale con un po’ di festa per i ragazzi e gli insegnanti. E poi vacanza fino ad inizio gennaio!
Le novità però non sono finite: domani verrà scelto il nuovo preside (headmaster) per il Memorial, dopo che James Jarso, l’attuale, ha dato le sue dimissioni per motivi di salute.

E oggi è stato un altro giorno speciale. Quando siamo arrivate a Gar Qasa, nessuno ci aspettava. Era in programma da settimane un incontro con la trentina di donne cristiane dei dintorni… Aspettiamo un po’, intanto facciamo due passi nella vicina manyatta, salutiamo le mamme e i bimbi, che si spaventano della “mia pelle che non c’e’” e scappano via o scoppiano in pianto!
Mi rendo conto come uscendo da Marsabit di pochi chilometri, la vita è completamente diversa. E anche la gente, molto più naturale e spontanea rispetto a quella della città. E soprattutto con la maggior parte non ci capiamo. Loro solo Borana, io al massimo kiswahili… Per fortuna ci sono i catechisti, che fanno traduzione. Anche Pierina sa un po’ il Borana e se la cava, almeno per capire le cose basilari. Con l’impegno della scuola e non avendo un mezzo di trasporto, oltre alle mie gambe, non ho possibilità di visite frequenti in queste out station, che si aprono ad un mondo intatto da millenni… dove la cultura è ancora forte, le capanne tradizionali, i bambini tanti e gli animali fonte di vita. Mi accorgo di come, poco a poco, mi sono adattata ad uno stile di vita “quasi cittadino”: dove entrano commercio e soldi tutto cambia. Ma anche la parrocchia di Marsabit, se escludiamo la cattedrale (che infatti è frequentata maggiormente da persone del sud del Kenya, che lavorano in città come insegnanti o negli uffici governativi o in ospedale), è costituita da popolazioni semi-nomadi, o più o meno stanziali, e mantiene le caratteristiche di missione di prima evangelizzazione.
Ritornate vicino alla chiesina, incontriamo alcune donne pronte per l’incontro e anche il catechista. Non ci sono tutte, ma iniziamo e dato che per me è la prima volta in questo gruppo, vengo presentata e… ricevo un nuovo nome.
Ho già da anni un nome Rendille, che è diventato parte di me ormai e a cui rispondo come quando mi chiamano Patrizia: Hidado. Hidado è il nome di un posto sperduto nel deserto di Kargi… e mamma Maria, quando mi ha visto per la prima volta nel 2001, mi ha detto che sentiva che ero nata nel deserto e che se fossi andata in Italia, un giorno sarei ritornata. Perché una che è nata nel deserto, dal deserto non ci può stare tanto lontana! E così Hidado Dokhe è diventato il mio secondo nome. Nome che è anche appartenenza ad una famiglia, quella di Maria, Ester, Samuel, Sarah, Antonella e James, che si prende cura di me e mi vuole davvero bene. Ma di questa storia scriverò un’altra volta. Perché è una storia troppo bella, di “adozione” e di comunione nella differenza.
Un nome Gabbra ancora non ce l’avevo! Anche se qui la maggior parte della gente è Gabbra o Borana… E allora oggi mamma Tumme mi ha chiamata. Dare il nome per la gente d’Africa ha un significato profondo e si fa per i bambini nelle prime settimane di vita, durante una speciale celebrazione. Mi ricorda l’atto di Adamo, quando Dio gli ha chiesto di dare il nome a tutte le cose da Lui create. E come per la Bibbia, anche per i Gabbra e i Rendille “dare il nome” è “fare proprio, accogliere”. Da estraneo diventi parte di una famiglia. I Gabbra credono che il nome più appropriato da dare ad un bambino è il nome del giorno della settimana in cui è nato e questo perché ogni giorno ha la sua particolare qualità spirituale, che verrà ereditata dal bimbo che nasce in quel giorno. Per ovvie ragioni, sono usati anche altri nomi, soprattutto relativi al tempo, alle feste, alle attività che si stavano svolgendo nel giorno della nascita oppure a particolari circostanze verificatesi durante la gravidanza o il parto oppure nomi legati alle qualità fisiche, psicologiche o morali della persona.
Patrizia Lookho: magra e dritta come il tronco dell’albero del Lookho…
Che poi io sia tanto magra e tanto dritta, beh, non è vero… ma questo è quello che loro hanno visto. E questo è ciò che io sarò per loro… Lookho. Già mi piace!
Così ora ho due nomi: quello di una parte del deserto e quello di un albero.
Un albero in mezzo al deserto… Bella come immagine, no? E’ anche un buon augurio di vita… Un obiettivo da raggiungere e per cui lavorare: essere albero in mezzo al deserto…
Dove “albero” è riparo, ombra e frescura e frutti. E dove “deserto” è silenzio di sabbia e pietre, che nasconde insidie, serpenti e scorpioni mortali, ma anche semi che alla prima pioggia sono capaci di trasformarlo in verde distesa.
Questi non siamo forse noi, unione di deserti e alberi? Far fiorire (o a volte anche solo sopravvivere) quell'albero nel deserto non è una sfida per tutti? :-D

venerdì 6 novembre 2009

giovedì 29 ottobre 2009

Terra di uomini

Bambino
Armato e disarmato in una foto
Senza felicità
Sfogliato e impaginato in questa vita
sola
Che non ti guarirà.
Crescerò e sarò un po’ più uomo
ancora
Un’altra guerra mi cullerà.
Crescerò combatterò questa paura
Che ora mi libera.

Milioni sono i bambini stanchi e soli

In una notte di machine,

Milioni tirano bombe a mano ai loro cuori

Ma senza piangere.


Ragazzini corrono sui muri neri di città
Sanno tutto dell’amore che si prende
e non si dà.
Sanno vendere il silenzio e il male
La loro poca libertà
Vendono polvere bianca ai nostri
anni
E alla pieta.


Bambini, bambini…


Bambino
In un barattolo è rinchiuso un seme
Come una bibita
Lo sai che ogni tua lacrima futura ha
un prezzo
Come la musica
Io non so quale bambino questa sera
Aprirà ferite e immagini
Aprirà
Le porte chiuse e una frontiera
In questa terra di uomini,
Terra di uomini.. oh bambino
Qual è la piazza in Buenos Aires dove
tradirono
tuo padre, il suo passato assassinato
Desapareçidos.
Ragazzini corrono sui muri neri di città
Sanno tutto dell’amore che si prende
e non si dà
Sanno vendere il silenzio e il male
La loro poca libertà
Vendono polvere bianca ai nostri
anni
E alla pieta.


Bambini, bambini.


Bambino
Armato e disarmato in una foto senza
felicità,
Sfogliato e impaginato in questa vita
sola
Che ti sorriderà.


(Bambini - Paola Turci)

lunedì 26 ottobre 2009

A proposito di "cuore nero dell'Afrika"...

Non lo capisco... Qui mi si scombinano le carte in tavola ogni giorno e sono provata con il fuoco. Se per me fino ad ora e' stato relativamente facile discernere il bene dal male, cioe' insomma... le cose buone, che possono portare frutto, e le cose che hanno magari un gusto piacevole ma che non portano ad una Vita Buona... E sapevo farlo rimettendoci di persona... ecco qui in questi giorni non e' piu' tanto cosi'!
In una terra dove quasi tutto e' permesso, dove la gente sa inebriarsi di vita... e sa tenere il piede in piu' di due scarpe... dove per me non c'e' pressione sociale, ma solo tanta, troppa ammirazione... Il bianco attira come la luce, e mi e' davvero difficile leggere in fondo nei cuori di questa gente, soprattutto dei ragazzi, degli uomini. Si confondono desideri, attrazioni, infatuazioni, innamoramenti ed amore... cioe' Amore, quello per cui sei disposta a dare la Vita. Tutto confuso. In questo cuore nero dell'Afrika io non ci so leggere.
Oggi ero a Tangaza College, universita' cattolica dove si studia teologia, per salutare alcuni amici e per il mese missionario, i religiosi di diverse congregazioni hanno organizzato un banchetto informativo, con volantini, foto, poster e powerpoint. Ed ho pescato una frase da un cestino: "I am sending you out like sheep among wolves, se be cunning as snakes and yet innocent as doves" (Mt 10, 16)...
E' certo la frase per me oggi. E' certo la sfida, non solo per me: prudenti come i serpenti e semplici come le colombe.


Si puo' essere un "serpente-colomba"?


Occhi fissi alla Luce. Senza lasciarsi spaventare, attrarre da altri sberluccichii...

domenica 25 ottobre 2009

Un anno fa...



"Ricordare" rinforza le motivazioni e le rinnova. E' atto dello Spirito, come dice Giovanni nel suo Vangelo.
Ad un anno dal mandato del Vescovo Dho ad Alba, un grande e profondo G R A Z I E a tutti coloro, con cui abbiamo continuato a costruire comunita' e comunione. Perche' MISSIONE NON E' UN POSTO, MA UN MODO DI ESSERE. Per questo la nostra missione e' una sola, anche se in parti diverse del mondo.
Preghiamo gli uni per gli altri.

sabato 17 ottobre 2009

Blessing - Benedizione

Saturday, the 17th October 2009

And that “black heart”, for the first time after more than one year in which it hadn’t saw a drop of water from the sky, now is green. Brilliant green. For times, it hid its seeds, that now are germinating and, it seems they are singing of joy, feast of Easter, of resurrection. It rains! No people waiting at wells: the mothers are at home, resting, looking at the dark sky and breathing the perfume from the wet soil, where they planted maize and beans, while their children are playing and singing.
The people on the street greet me. Today they are relax and they have time, more than usual: they stay and talk and it’s easy to be infected by this atmosphere of feast. Marsabit is living a new light of peace.
Last week, I asked the pupils in Standard 4 to draw a peaceful school: beautiful results, full of particulars... but one amazed me more than the others: Abdul drew a big building full of happy children, while from the sky it was raining dogs!
“Sisi tuna kichwa kigumu, lakini Mungu ametubariki tena” – say the people in Marsabit. This is His mercy. This is His peace.
Thank God and be in feast with us!


Sabato, 17 ottobre 2009
E quel “cuore nero”, per la prima volta dopo un anno e mezzo in cui non ha visto una goccia di acqua dal cielo, ora è verde. Verde brillante. Ha tenuto nascosti in sé semi e radici, che ora crescono rigogliosi e canta di gioia, festa di Pasqua, di Risurrezione. Piove! Pozzi deserti; le mamme si riposano a casa, contemplando il cielo scuro e respirando il profumo della terra bagnata, in cui hanno seminato con speranza fagioli e mais, mentre i bimbi giocano cantando. La gente per la strada mi saluta rilassata. Hanno tempo oggi, più degli altri giorni: si fermano a parlare ed è facile farsi contagiare da quest’atmosfera di festa. I cammelli, che sempre in fila ordinati, seguivano il loro pastore alla ricerca di un pascolo, ora corrono come bimbi. Marsabit è avvolto in una luce di pace.
Agli alunni di quarta elementare la settimana scorsa ho chiesto di disegnare una scuola in cui secondo loro regnasse la pace: disegni fantastici, pieni di particolari… ma uno mi ha colpito: Abdul ha tratteggiato un grande caseggiato pieno di bambini felici mentre dal cielo scendeva una pioggia battente! “Il Signore ci ha benedetti di nuovo, anche se abbiamo la testa dura” – dice la gente di Marsabit -. Questa è la Sua misericordia. Questa è la Sua pace.
Ringraziate e fate festa con noi!

The nations will come to its light

Wednesday, the 14th October 2009

Tonight is one of those moments in which I feel on my shoulders all the tiredness of our walk, not only physical tiredness because of walking on foot long distances in our dusty roads near the houses, but it’s also tiredness of that going that is typical of the human life. It could be the commitment in our primary school “Memorial Father Asteggiano”; or maybe the meetings in the secondary schools, for which I have to prepare myself very carefully; it could be the fact of meeting people, children, mamas, wazee, teachers, missionaries the whole day... that doesn’t leave me any “privacy” to rest; or maybe the difficulties in communications and transports; it could be the prejudices about “wazungu”, white people in the mind of these people; or maybe for the exhausting waiting of the rain, that blessed us only few hours, after more than one year...

For all these factors sometimes I need to recover my energies and to think of the signs of the Kingdom of God present between us.

Like that child I met on the way back to my house: he was smiling and playing with other children, but he stopped me, put his hand in his pocket and with the hand full of biscuits’ crumbs asked: “Yoya’, intal. Unapenda biscuiti?”. I opened my hand to welcome that gift: “Yoya, toto. Ndiyo, napenda sana. Asante”.

Like Emmanuel, a teacher in Memorial school, who is always available to help someone in difficulty in the school.

Like the members of the Small Christian Communities of the Cathedral, here in Marsabit, who meet once a week to read and share the Gospel.

Like that small girl, 2 years old, who is suffering for that mortal disease called AIDS, but with her joy she is fighting it every day.

Like James, chemistry teacher, who is finishing his Master, who doesn’t forget the people of Marsabit and the students in “Cavallera Secondary School”, where he tough, even if now he is far.

These are small lights that I’m helping me to enter in what it’s called “the black heart” of Africa. A heart that I have difficulty to understand and sometimes to welcome in me. A heart which hides to me something, always; which doesn’t allow me to know deeply these people. Maybe because that heart is the mystery of the human beings that is telling me that we cannot take for granted that we completely know one another and belong to him/her, without having nothing new to discover. We grow and we change every day.

And now that hear, still black, is not so dark anymore because it is in search of something more, rich of desires and full of amazement for something beautiful and not awaited. The day will come, in which there’ll be perfect light, in us, in the others, in the history of the world... And so really, as the Pope wrote in the message for the World Mission Sunday: “The nations will come to its light”.


Mercoledì, 14 ottobre 2009

Stasera è uno di quei momenti in cui sento sulle spalle tutta la stanchezza del camminare, non solo del camminare vero e proprio, a piedi, nei nostri polverosi sentieri che si snodano tra le casupole, ma di quell’andare che è proprio della vita di ogni essere umano. Sarà l’impegno nella scuola primaria “Memorial don Asteggiano”; saranno gli incontri nelle scuole superiori, per cui bisogna prepararsi bene; sarà il continuo incontro con la gente, bambini, vecchi, mamme, insegnanti, missionari… che mi lascia così poca privacy; sarà anche la difficoltà nelle comunicazioni e nei trasporti; saranno i pregiudizi sui “bianchi” nella maggior parte della gente di qui; sarà la snervante attesa per la pioggia, che per ora ci ha benedetto solo per alcune ore… Fatto sta che a volte, per combattere l’inaridimento anche spirituale e per ritrovare le forze, mi sforzo di accorgermi dei segni del Regno di Dio presente tra di noi. Come quel bimbo che oggi, sulla strada del ritorno, mi saluta sorridente, si leva una manciata di briciole dalla tasca e mi dice: “Sister, prendi un biscotto”. “Grazie”, gli rispondo, accogliendo quel dono nella mia mano. Come il maestro Emmanuel, che stamattina a scuola ha lasciato i suoi impegni e mi ha aiutato a preparare l’esame di religione di quinta elementare. Come i gruppi di cristiani, una decina, che una volta a settimana si ritrovano a leggere e condividere il Vangelo. Come Guyato, due anni appena, che già soffre per quel male mortale che è l’AIDS, ma con la sua voglia di vivere, lo combatte tutti i giorni. Come James, kenyota del sud, studente universitario di chimica a Nairobi, che non si dimentica della gente di Marsabit e delle ragazze della scuola secondaria della diocesi a cui ha insegnato per diversi anni.

Sono piccole luci che mi conducono in quel che è chiamato “il cuore nero” dell’Africa. Un cuore che faccio fatica a comprendere e alcune volte pure ad accogliere. Un cuore che mi nasconde sempre qualcosa, che non mi lascia mai conoscere a fondo le persone. Forse perché quel cuore è il mistero dell’essere umano, che mi dice che non si può mai dar per scontato di conoscersi o conoscere un’altra persona, senza aver più niente da scoprire. Si cresce e si cambia ogni giorno.

E allora quel cuore, ancora nero, non è più così oscuro perché in ricerca, ricco di desideri e pieno di stupore per qualcosa di bello e inatteso. Arriverà il giorno in cui sarà luce perfetta, in noi, negli altri, nella storia del mondo… E allora davvero, come ci ricorda il papa nel messaggio per il mese missionario: “Tutte le nazioni cammineranno nella Tua luce”.

Un grazie dal cuore di questa Chiesa che è in Marsabit a voi tutti che, in comunione di fede e di vita, ci portate nei vostri pensieri e ci aiutate, anche materialmente. A un anno dal mandato missionario ricevuto dal Vescovo Mons. Dho, continuiamo a camminare insieme per costruire una storia che sia futuro per tutta l’umanità. Il Signore vi benedica. Mungu awabariki.

martedì 13 ottobre 2009

Segnare dentro

Un misto di stanchezza e rabbia, quella che nasce dal senso di impotenza, posso intuire in questi giorni nel mio cuore. Sentimento nuovo, che in questa terra africana non mi fa nemmeno venire in mente di combattere o lottare, ma è impastato con ciò che respiro ogni giorno: arrendevolezza. Bene o male, bello o brutto, é quello che vuole Dio – é quello che si pensa e si dice qui, tipica filosofia musulmana, che spegne ogni fuoco di ribellione o riscatto. E a volte é proprio questa arrendevolezza che mi mette rabbia dentro. Forse per la mia indole combattiva e difensiva, pronta a lottare prima di accettare.
Aspettiamo la pioggia tra pochi giorni (gia' ha piovuto un po' di ore, e questo e' di buon auspicio!) e intanto arriva quel che si chiama “relief food”, il cibo mandato dal Governo alle famiglie povere. È distribuito gratis. Tanti lo ricevono e in questo momento arriva come benedizione in molte famiglie della città, che hanno perso per strada la forza e la condivisione della comunità e del clan e che nella modernità cittadina non hanno trovato altri valori da sostituire a questi. E se ne rimangono così doppiamente poveri. Doppiamente miseri. Bene, …, o forse un po’ meno bene, quando andando al mercato, trovo questo cibo sui banchi dei negozi. Il cibo destinato ai poveri non è stato distribuito tutto, evidentemente, o è stato distribuito male… E noi che si fa? Si è costretti a COMPRARLO, anche per nutrire i ragazzi della scuola della parrocchia, perché non se ne trova altro. Insomma, copriamo il cibo dei poveri (che doveva essere dei poveri) per… ridarlo ai poveri! Certo, che razza di giustizia é mai questa!
E la stessa cosa succede con l’acqua che il governo dovrebbe dare gratis, due volte il trimestre, ad ogni scuola, pubblica o privata. Di acqua ne arriva un camion solo… Non fatemi pensare dove si è perso l’altro… Venduto, o regalato a qualcuno che nella sua casa con il tetto di tegole (rare qui in Marsabit), con un’auto parcheggiata in giardino, ci sta già da pascià. E come si dice… i ricchi sempre più ricchi…
Per fortuna qualcuno inizia a parlare e a denunciare, almeno a parole, quello che sono i fatti, che tutti conoscono. Non è ancora la soluzione ad una società e ad un Governo corrotto, ma almeno apre uno spiraglio.

E poi ogni giorno, prendo più coscienza del “particolare” rapporto tra uomo e donna, cioè tra marito e moglie. E oggi per poco non scoppiavo a piangere in faccia ai maestri, durante il pranzo al Memorial, quando uno di loro, originario di Marsabit (gli insegnanti – per fortuna – arrivano da tutto il Kenya e ciò permette un buon equilibrio), raccontava di come un marito si fa rispettare dalla moglie. “E guai se alla sera lei va a dormire prima di me, o se mi butta lì il piatto sul tavolo, così, questa è totale mancanza di disciplina. Se le prende. Se le prende, con ragione o senza. Qui la donna sa che se riceve botte dal marito, é amata da lui. É un modo di amare”. L’unica insegnante donna (arriva dal sud del Paese), oltre a me, ha chiesto: “E tua moglie cosa dice?”. “Mia moglie, cosa deve dire? Sta zitta!”. Ho sentito raccontare mille volte queste cose, ho visto donne con i segni visibili di questo… “affetto” coniugale… ma oggi, conoscendo il maestro e la sua famiglia, mi e’ venuto un groppo in gola. E a stento ho trattenuto le lacrime. Non ho avuto la forza di aprire bocca. Ho solo pensato a quanto stanca può arrivare la sera una mamma di Marsabit (se penso che la mia stanchezza è già tanta, pur badando poco alla casa, al cibo e senza bambini miei), con il pensiero di dove andare a procurarsi l’acqua e la legna per il fuoco e guardare i suoi figli… e questa mamma ha l’OBBLIGO (perché è un obbligo culturale e sociale) di far trovare l’acqua calda per il bagno al marito al suo ritorno a casa (dal lavoro, dal bar o da qualsiasi posto…!) e il cibo pronto. Il marito deve mantenere la famiglia, ma non sempre lo fa… e nessuno “gliele da’ di santa ragione”!
Forse la cosa che mi ha urtato di più è stata quella che di mezzo ci ha messo pure la religione: “Perché noi cristiani”… Noi cristiani?!?!? Ti prego, lascia stare in pace Cristo. Qui non c’entra niente e se tu pensi che agendo così, continui ad essere cristiano, non hai idea di che cosa significa essere “di Cristo” oppure hai davvero avuto un esempio terribile di Chiesa e di fraternità cristiana!
E’ soprattutto nel contesto matrimoniale che sento una forte necessità di redenzione e liberazione. Questo modo di pensare e di agire è una schiavitù, per molte moglie e per altrettanti mariti, che non vivono appieno il profondo significato di darsi l’uno all’altra per tutta la vita, di un amore che va altro all’obbligo e al soddisfacimento dei bisogni umani! E’ qui che sento che Cristo e il Vangelo potrebbero davvero rinnovare, cioè fare nuovi, i rapporti umani, soprattutto nel matrimonio. Qui Cristo ha spazio per liberare e per ridare dignità ad ognuno. Qui c’è necessità di lasciarlo entrare…

Se solo apro gli occhi sulle ultime coppie che si sono sposate in Chiesa in questi mesi, so che i begli esempi ci sono e parlano chiaro. Come quello di Gabriel e Teresa, che hanno celebrato il loro matrimonio il 20 settembre. Gabriel, originario dell’Etiopia, ma emigrato a Marsabit con la sua famiglia quando era piccolo, non ha avuto paura a scegliere Teresa, Gabbra di Bubisa, unica cristiana nella sua famiglia, rimasta recentemente orfana di padre e madre. Gabriel, che ha avuto il coraggio di prendere in braccio Teresa (mai si è visto pubblicamente una cosa così qui: tu sei libero di fare tutto in casa tua, ma fuori marito e moglie si comportano come “vicini di casa”, rapporti più che politicamente corretti e… distaccati, è un dato di fatto, culturale), per farla scendere dall’auto e portarla dove gli invitati aspettavano per il pranzo.
Metto qui la foto delle loro mani. Perché siano segno di speranza per tutte quelle donne che non hanno mai conosciuto Amore dal loro partner. Siano segno di speranza anche per noi che andiamo in giro per le scuole a parlare, a condividere con i giovani delle superiori… perché non ci stanchiamo mai di “in-segnare”…: SEGNARE DENTRO qualcosa di Buono e di Bello per la loro vita. Che non viene da noi, dalla nostra cultura o istruzione, ma viene da più in alto o… forse da più in basso, dalla comunanza del nostro essere umani e del saperci creature originali e uniche nella storia del mondo.

lunedì 28 settembre 2009

Mani in pasta!

Domenica 20 e lunedi' 21 e’ stata festa dell'Eid al-Fitr. E' una delle piu' importanti celebrazioni islamiche. Dopo un mese di Ramadam, di digiuno e di preghiera, si preparano grandi banchetti, danze, musiche e canti, che durano tre giorni. Il venerdi' precedente sono stata svegliata nel cuore della notte da una sfilata di tamburi e bastoni che scandivano il ritmo a tempo. Un po' spaventata, ho pensato ad una organizzazione volontaria per tenere lontani gli elefanti; ho anche pensato a qualcosa di peggio... ma ho poi scoperto l'indomani che non era altro che un gruppo di musulmani che passavano a svegliare gli altri fratelli e ricordavano loro di mangiare durante la notte. L'indomani sarebbe stato l'ultimo giorno di digiuno. Domenica mattina, andando a Messa, sempre per le mie stradine secondarie, sono arrivata dietro il campo da calcio che si trova nel centro a Marsabit, proprio accanto alla strada principale. Un folla enorme, uomini con il vestito bianco e i loro bambini (maschi) accanto, seduti nel campo, sulla loro stuoia della preghiera, ascoltavano il loro imam, che dopo aver pregato infervorava gli animi e spiegava la festa che iniziava. Ad un lato del campo, si sistemavano le donne con le figlie, tutte rigorosamente con il velo sul capo, alcune anche sul viso, lasciando scoperti solo gli occhi. Gia' prima di giungere in centro, avevo notato alcune famiglie (un po' ritardatarie!) che si affrettavano a raggiungere il luogo della preghiera. Il papa' con il bel vestito bianco abbottonato davanti (di un bianco che a Marsabit fa impressione!) teneva per mano i suoi due figli maschi: il piu' grandicello aveva anche lui la tunica, verde scuro e un cappellino rotondo, nuovo, una misura piu' grande della sua, che gli cadeva un po' di sghembo sulla fronte. Il piu' piccolo indossava un completino nuovo e portava arrotolata sotto il braccio una stuoina. La mamma li seguiva, a pochi passi da loro. E il presidente Kibaki ha proclamato il lunedi' "pubblic holiday": scuole e banche chiuse, per dare la possibilita' ai musulmani, che in Kenya sono tanti, soprattutto sulla costa e qui nel nord, di festeggiare. E cosi' anche noi abbiamo fatto festa. E una festa ci voleva proprio, dopo la pienissima settimana trascorsa tra la scuola, la parrocchia, le normali faccende di casa, la preparazione dei corsi di Leadership per le scuole superiori, la compagnia a sr. Christine che era rimasta sola in convento. Da tempo mi proponevo di fare gli gnocchi: le patate non mancano e il tempo secco di queste settimane sarebbe stato perfetto! Cosi' ho approfittato di questa occasione e il lunedi' mattina, dopo aver messo a dimora la mia pianticella di avogado che era gia' cresciuta fin troppo nell'acqua e averla protetta da animali e bambini con una bella rete, ho preparato gli ingredienti. Stavo per iniziare a schiacciare le patate quando le due figlie di Hillary, mio vicino di casa, Flora 5 anni e Maria 8, bussavano alla porta, accompagnate da una loro amichetta di terza elementare, Betty. Che fare? La cosa piu’ semplice che mi e’ venuta in mente e’ stato… il lavoro di gruppo, non dopo un lungo e accurato lavaggio di mani e braccia. Abbiamo preparato la pasta e ci sia mo messe al lavoro! E infine, abbiamo cucinato i loro gnocchi e li hanno mangiati con gusto, con un buon ragu’! Vedere lo stupore e la gioia nei loro occhi, beh, ripaga di tutte le fatiche della giornata! Ognuna di loro e’ tornata a casa con un pacchettino di gnocchi per i genitori e con una condivisione culturale preziosa, anche per me! Infine, dato che la cuoca della missione aveva il giorno libero e padre Paolo era ai fornelli, sono andata a pranzo in parrocchia, e cosi’ ho portato a loro un po’ del frutto delle nostre fatiche della mattinata! Apprezzati da tutti!

lunedì 7 settembre 2009

Per salire sulla montagna...

Da qualche tempo stavo cercando di trovare un momento per andare al Santuario e alla tomba di don Tablino. Dopo la sua morte, tra un impegno e l’altro, non sono stata più frequente nelle visite alla cappella in cima alla collina… Forse anche perché ora manca lui. Approfitto di alcune ore libere il venerdì pomeriggio per mettermi in strada e affrontare la mezz’ora di salita verso la casa di preghiera. Mi vesto per bene, con una bella stoffa colorata avvolta attorno al viso e le scarpe robuste che mi ha lasciato Sarah. C’e’ poca gente in giro, sulla strada principale. Non ci passo da un bel po’ di giorni, perché quando vado in paese preferisco usare la stradina in mezzo alle case, dove almeno non passano auto e c’e’ meno polvere. Comunque non noto nessun cambiamento. Spingo lo sguardo avanti per cercare con gli occhi il sentiero che sale sulla montagna, ma vedo solo una spessa coltre bianca, come nebbia, ma che nebbia purtroppo non è. Mi copro la bocca con la mia sciarpa e proseguo. Impiego molto energie per combattere la forza del vento che mi sfida ad ogni passo. Attraverso un campetto, ricoperto di sacchetti di plastica, portati dal vento chissà da dove… e finalmente inizio la salita. Il Santuario impera maestoso sulle brulle vallate di Marsabit, dove le capre hanno finito anche i semi che per mesi erano rimasti speranzosi sottoterra. Giungo alla tomba di Tablino senza incontrare persona. Lo sento presente, vivo. Gli raccomando le persone che mi hanno chiesto di pregare per loro, soprattutto alcuni amici dall’Italia e anche la situazione della nostra diocesi di Marsabit e del lavoro pastorale. E poi, dopo un digiuno troppo lungo dalla Parola, mi siedo con la mia Bibbia, nella cappella del silenzioso Santuario e passo un’ora senza rendermene conto. Come arrivare all’acqua dopo una camminata sotto un sole cocente. Come rivedere la persona che ami dopo tanto aspettare. Il mio cuore riposa, come non faceva da tempo. E allo stesso tempo è vigile a cogliere i suggerimenti dello Spirito, che ridanno significato al mio essere qui. E alla sofferenza di esserci da sola. Dopo aver salutato father Dutto, me ne torno rappacificata a valle, passando a salutare le suore comboniane in parrocchia. L’indomani sarebbe stata una giornata all’insieme della comunione. In programma la festa della Beata Teresa di Calcutta, fondatrice delle Suore missionarie della Carità che lavorano anche a Marsabit. Alle 11 ci ritroviamo nella parrocchiale per la Santa Messa, presieduta dal vescovo. Canto con il coro e affatico anche un po’ la voce, assecondando per quando posso il timbro africano e diretto delle mie vicine. Pranziamo insieme sotto la tettoia delle Charity sisters e, dopo un breve saluto a padre Paolo, m’incammino verso casa senza voglia di raggiungerla, desiderosa - se solo potessi - di trascorrere un po’ di tempo in buona compagnia di fedeli amici. In Marsabit l’individualismo e la frammentazione sono quasi a livello europeo. Ognuno si deve costruire a fatica la propria nicchia di conoscenti e amici. Ancora diverso a Maikona e Kargi in manyatta… Ma anche quest’atteggiamento individualista si spezza nel cuore limpido dei bambini, che ormai conoscono quella “sister” che ogni giorno passa davanti a casa loro e dopo un primo momento di esitazione, mi corrono incontro con la manina tesa, gridandomi “yoya”, soprattutto quando vesto la gonna e non i pantaloni…! Nella camminata di ritorno incontro due bimbetti che avevo già salutato al mattino. Uno di questi non sa una parola di kiswahili, solo borana e mi fa ridere perché ripete l’ultima parola di tutto quello che io dico, forse cercando di rispondere alle mie domande. Si avvicina un amichetto, tre anni su per giù, ed io tendo loro la mano salutando con un “Nagat”, “arrivederci”. Lui mi prende la mano, la guarda e ci… sputa sopra. Sono certa lo ha visto fare dai suoi nonni o dal suo papà, in segno di benedizione per un ospite. E ripete il gesto, sorridente. Anch’io ricambio la benedizione, solo a parole però! Mi allontano e non riesco a trattenere il riso. Il Signore si sta davvero prendendo cura di me e mette segni ovunque, per rafforzarmi, per essere Sua testimone più fedele e… per curare quelle ferite che ogni tanto fanno ancora piangere il mio cuore. Ma che continuano ad alimentare un altro grande sogno della mia vita. Che è quello di “amare fino alla fine”, senza tenermi niente, in coppia, in famiglia. Alla sera ricevo diverse telefonate: mia mamma, che aggiorna sulla vendemmia dei Dolcetti; Moses, un missionario laico, che avevo conosciuto a Marsabit nel 2001 e che ora è preside di una scuola a Garissa; James Dokhe, il mio caro fratello di Kargi, che mi invita ufficialmente al suo matrimonio il 27 dicembre e l’altro mio prezioso amico James, reduce da un brutto raffreddore, ma di cui mi fa piacere sentire la voce. Vado a letto soddisfatta. Con tante parole amiche, e una benedizione che vale più di un tesoro.

venerdì 4 settembre 2009

Siccita': senza parole.

Primi giorni di scuola

Primi giorni di scuola.
Anche se una bambina non sono piu', continuo ad imparare.
Anche se questo per gli studenti di Marsabit e' l'ultimo trimestre dell'anno scolastico e gli esami di fine anno saranno alle porte tra due mesetti.
E' molto interessante inserirsi in una realta' come quella della scuola primaria "Memorial Father John Asteggiano". E' una scuola privata della parrocchia, ma negli ultimi anni aveva purtroppo registrato una regressione nell'organizzazione interna e nelle performances finali degli alunni.
Da questo mese ha un volto nuovo: father Paolo, arrivato a dicembre come me, ha deciso per una sua parziale ristrutturazione, grazie anche alle ottime offerte che continuiamo a ricevere dagli amici di Alba. Ogni classe un colore diverso. E tanti nuovi libri (qui il governo non da i libri agli alunni come da noi, con i cedolini, ma nelle scuole pubbliche e' la scuola stessa che riceve fondi per comprarne alcune copie da tenere nella libreria scolastica).
E i bambini (ma che dire del rinnovato entusiasmo dei maestri?!?) sono estasiati. Tutti i giorni, dopo il pranzo, preparato nella nostra cucina e consumato a scuola, arrivano a frotte in libreria per leggere, rinunciando a quel tempo generalmente dedicato al… gioco del calcio! :-)
Lo staff e' composto da undici maestri (tra cui il preside) piu' una segretaria, un cuoco, un "giardiniere" e il guardiano notturno. Conoscevo gia' alcuni maestri, come Fridah ed Emmanuel perche' sono buoni cristiani e li incontravo sempre in parrocchia. Il gruppo e' buono e rinasce rimotivato dai recenti cambiamenti. Inoltre, oltre l'orario di lezione, ci sono attivita' extrascolastiche, come "Pastoral care" (ossia una sorta di nostro catechismo-gruppo Acr), "Games" (sport collettivi), pulizia della scuola (fatta dagli alunni a turno, non ci sono bidelli!), counselling per le ragazze di sesta, settima ed ottava, "Children helping Children" (associazione che ha un nome anche in italiano ma ora non ricordo)... Inoltre una volta al mese i ragazzi cristiani della scuola sono chiamati ad animare la messa domenicale delle ore 8 in parrocchia. Tutti in divisa, ovviamente!
Per questo trimestre insegnero' CRE (Christian Religious Education) in classe quarta e quinta (tre ore a settimana in ogni classe) piu' un'ora di PPI (Programme di Pastoral Instruction) in ottava (la nostra terza media, anche se a volte i ragazzi hanno 15-16 anni).
Inoltre il giovedi' nella pausa pranzo, con Fridah, seguo il gruppo delle ragazze piu' grandicelle: oggi abbiamo scelto alcuni degli argomenti che andremo a condividere nei prossimi incontri, tra cui relazione tra figli e genitori, sessualita', sogni, tempo libero, innamoramento, la dignita' della donna (circoncisione inclusa)... Beh, insomma, una bella sfida!
Ruth, Charity, Robe, Tumme, Sogure, Moses, Abdul, Ali, Sabdio, Elizabeth... sono bravi ragazzi, disciplinati. Ti stanno ad ascoltare, se sei capace di attirare la loro attenzione. E per ora io con la mia pelle bianca di attenzione ne attiro fin troppa. Anche perche' penso che dalla fondazione di questa scuola sono la prima "mzungu" ad insegnare li' e generalmente loro sono molto lusingati. Anche se a me pesa il fatto di essere sempre diversa. Mi sento a casa, ci sto proprio bene qui... ma, tante volte mi accorgo che loro stanno con me perche' sono compiaciuti della mia presenza, un po' come si cercherebbe l'amicizia di una persona importante... perche' poi sai nella vita non si sa mai...! Ma poco per volta, quando impareremo a guardare al di la' dei nostri visi, scopriremo che c'e' da incontrare un essere umano... che non e' poi tanto diverso da me stesso.
Come ho scritto nella riflessione fatta durante il corso di aggiornamento con i maestri, ringrazio infinitamente il Signore perche' mi rendo conto di essere molto fortunata di essere qui. Ringrazio il Signore perche' mi ha dato il coraggio di lasciare la mia Italia, la famiglia, gli amici e il mio amato lavoro e i miei amati bambini per condividere questi miei giorni con questa gente di Marsabit.
Anche se oggi al ritorno da scuola pensavo a quanto mi mancano i bimbi che tra poco inizieranno la quarta elementare. E Pietro. E Mattia. Forse e' stata la cosa che mi ha fatto piu' piangere quando ero ancora a Monforte e stavo preparando la valigia per l'Afrika! E la maestra Sandra, che, senza saperlo, mi ha insegnato ad insegnare, a diventare una maestra, anche senza corso universitario. E le sfide combattute insieme a Pietro e a Mattia e le soddisfazioni e le arrabbiature. C'e' ancora tanto mio cuore la'. E non deve essere motivo di nostalgie. Perche'? "FACILMENTE SI DA' ESAGERATA IMPORTANZA ALLE PROPRIE AZIONI, DIMENTICANDO CHE ABBIAMO RICEVUTO DA ALTRI QUELLO CHE SIAMO DIVENTATI" (D. Bonhoeffer). E tutti questi "altri" che mi hanno formata e mi stanno formando stanno vivendo a Marsabit qui, in me, in questo momento. Come io sto vivendo ad Alba, a Monforte, a Torino, a Malta, a Zaragoza e in tanti altri posti, per quella piccola condivisione che ho dato un giorno a qualcuno.
Non c’e’ da aspettare il paradiso. E' gia' Comunione in Cristo.

sabato 29 agosto 2009

Privacy da nomadi!

Ci siamo.
Una freccia in pieno cuore.
Mi sembrava che la mia “inculturazione” andasse troppo liscia e che la convivenza con queste persone che qui incontro e con cui vivo fosse troppo “pacifica”!!! Ma ecco che mi sono dovuta scontrare con uno dei presupposti piu’ basilari della cultura nomade: il concetto di privacy. Totalmente diverso dal mio di “mzungu”, di occidentale. E’ difficile parlare di privacy quando tutto e’ di tutti: la capanna di tua zia e’ anche la tua capanna; gli animali di tuo zio sono anche i tuoi, fan parte della famiglia. Anche il concreto spazio fisico che ti separa da un’altra persona non esiste. Il tuo spazio e’ il mio spazio. Anche quanto i tuoi genitori cercano un momento di intimita’, beh… difficile che nella capanna siano da soli: i bambini sono li’ che quasi dormono nello stesso letto… Privacy e’ intesa diversamente. E non e’ da pensare che condividano tutto con tutti. Assolutamente no! Ma non e’ neppure da pensare che se una persona vive in citta’, se vive a Marsabit invece che a Maikona o Kargi, in una casa in muratura e senza avere animali vicino a casa, e magari guida pure la macchina ed e’ andata all’universita’… ecco, non si puo’ pensare che questa persona non sia piu’ un nomade. Lo e’ perche’ e’ nel suo sangue. Lo e’ fin nel midollo. E il concetto di privacy fa parte di questo universo culturale che e’ insito in ognuno. Io ho imparato, senza saperlo, ma vivendolo ogni giorno, non solo nella mia famiglia, ma anche in parrocchia, tra amici, a scuola, in tutta la societa’… ho imparato che se metto il tappeto davanti alla nostra porta di ingresso nessuno lo togliera’. Che se lascio il mio libro sul mio banco nessuno ha il diritto di prenderlo. Che se il mio vicino di banco in Chiesa sta usando un libretto dei canti io non andro’ a prenderglielo dalle mani per usarlo io. Ho imparato che se semino qualcosa nel mio orto dietro casa, anche se non c’e’ il filo spinato, nessuno verra’ a raccogliere la mia verdura. Perche’ e’ chiaro che quel pezzo di terra e’ stato coltivato da me. E quella e’ mia proprieta’. Mai pensero’ che il mio vicino di casa portera’ le sue capre nel mio giardino o orto e tanto piu’ lascera’ loro mangiare le piante seminate. Di certo, se ha bisogno di erba per i suoi animali, mi chiedera’ il permesso. E questo vale anche se abito in un condominio o in un gruppo di case.
E questo pensavo che valesse anche quando davanti a casa mia, qui a Marsabit, proprio appena fuori dalla porta, attaccato al mio marciapiede, ho seminato alcune piante di zucchini, di zucca e di insalata. E dietro casa una pianticella di avogado. Non erano solo per me. Erano per il compound. E anche per arricchire con un po’ di bellezza e di verde il nostro cortile, questo dovrebbe far piacere a tutti. Quando sono tornata da Nairobi, dopo qualche settimana di assenza, durante la quale Martin, il mio vicino di casa, si e’ preso cura delle piante… non ho trovato piu’ niente. Tre giorni prima che arrivassi, i ragazzi che ci sono nel compound, giocando a calcio, hanno calpestato tutto e la gallina dell’atro mio vicino ha finito la frittata! E oggi arrivo a casa nel pomeriggio da scuola e mi trovo il cortile (che e’ comune con altre 12 casette, tutte della diocesi, date ai lavoratori degli uffici pastorali diocesani) invaso da mucche. Pensando al mio povero alberello di avogado, mi affretto ad andare dal pastorello, che e’ un ragazzo di prima superiore, figlio della responsabile dei gruppi femminili diocesani (cioe’ non sto parlando dell’ultimo morano mai uscito da Maikona), e gli chiedo se puo’ fare attenzione che le mucche non lo mangino. Rientro in casa e dopo poco esco di nuovo per portargli una banana e vedo tutte le mucche pericolosamente vicine al mio alberello. Gli ricordo di fare attenzione. Rientro in casa. Non erano ancora passati 5 minuti e lui viene a chiamarmi per dirmi non so che cosa, un ragazzo e’ arrivato e ha tirato una pietra e ha spaccato l’alberello e allora lui lo ha dato da mangiare al suo vitellino… Una balla grossa come me, ovviamente. Lui non era attento e la mucca si e’ pappata le uniche foglie verdi del cortile!!! E cosi’ anche l’ultimo verde sopravvissuto ai ragazzini, e’ finito male.
Mazzinga, che rabbia! Mi hanno finito tutto! Neanche avessi piantato in mezzo alla strada o davanti alle loro porte! E nessuno che si avvicini a parlarne o a chiedere scusa o a sgridare i ragazzi per quello che han fatto! Chiamo James, che e’ il responsabile di tutti gli uffici pastorali, laureato con master. Ammette che i suoi ragazzi c’entrano qualcosa, ma che andranno presto a scuola. Gli spiego, cosa ovvia per me, che io non lo sto dicendo per me, io posso ripiantare le mie verdure. Ma e’ bene che i ragazzi siano educati bene e che capiscano che prendersi le proprie responsabilita’ e’ un passo per crescere e che il rispetto dovuto aAggiungi immagine ogni persona e cosa, sia tua sia degli altri, e’ un valore importante per noi uomini e poi per noi cristiani. Il papa’ va a casa; dopo poco arrivano i tre ragazzini chiedendomi scusa. Con tono calmo e dolce, chiedo loro se a loro piace la verdura. Mi dicono di si’. Chiedo loro se avessero visto come crescevano bene quelle piante. Altra risposta positiva. Purtroppo non potremo mangiare niente insieme perche’ non ci sara’ raccolto. Rimangono male. Intimiditi. Cosi’ come i frutti dell’avocado. Non sarebbero stati solo per me, ma per tutti quelli del cortile.
Ci riprovero’ un’altra volta. Un altro avogado sta gia’ crescendo in casa. E altre sementi sono nel mio armadio. Ma per ora aspetto che riaprano le scuole. Giusto per dare una chanche in piu’ ai semi di germinare… in pace e con un po’ di privacy!

giovedì 27 agosto 2009

Vacanze africane

Tornata a casa (finalmente)... anche se tra polvere e vento, ricordo con meraviglia i pochi giorni che ho avuto la fortuna di vivere a Lamu, sulla costa kenyota, lambita dall'Oceano Indiano, poco a nord di Malindi. "Vacanza non programmata", potrebbe essere il titolo giusto da darle! Eh si', perche' veramente non avevo intenzione di andare in vacanza, senonche'... un giorno, Sarah, di passaggio a Marsabit, mi informa che stava meditando di fare una pausa e di visitare la costa. Ma non le andava di viaggiare da sola. E dato la nostra buona, anche se nuova, amicizia, mi ha chiesto se avessi voluto tenerle compagnia e condividere con lei questa avventura.
Ci ho pensato e poi... la Provvidenza ci ha messo lo zampino e ha messo davanti ai miei occhi la possibilita' di raggiungere Nairobi con la macchina del Vescovo che andava giu' per un incontro... e allora... ho preparato la mia borsa 10 giorni prima del previsto, ho messo ordine e chiuso casa e sono partita.
Ma ancora piu' "stupefacente" e' lo consapevolezza di come e' nata l'amicizia con Sarah. Arrivata dalla sua Germania nella nostra diocesi di Marsabit a febbraio, Sarah ha subito raggiunto North Horr, una delle parrocchie nel bel mezzo del deserto, dove ci sono due sacerdoti tedeschi e dove ha svolto il suo tirocinio pratico per i suoi studi universitari di "Scienze sociali", insegnando nelle scuole primarie del villaggio e seguendo alcuni progetti sul rispetto dell'ambiente, l'igiene e l'uso dell'acqua. Ci siamo incontrate per la prima volta proprio lassu' a North Horr, in occasione di una nostra visita per i corsi di "leadership" che organizziamo nelle scuole superiori. Ma il tempo era stato breve e lei era ancora un po' sballottata dal recente arrivo. Nelle successive vacanze scolastiche di aprile, Sarah decide di venire a Marsabit per un mese ad aiutare le suore di Madre Teresa con i bambini che ospitano nella loro casa. E cosi' iniziamo a fare qualcosetta insieme, condividiamo anche diversi incontri di giovani nelle parrocchie, usciamo sovente per... una cocacola (!! cioe', qui la vita sociale... beh, e' un pochino diversa da quella italiana!! e queste uscite sono cose rare... anche perche' non ci sono bar "ben nominati" in quel di Marsabit, non so se mi spiego!) o una passeggiata o per andare al mercato o a Messa... Condividiamo anche viaggio e camera quando ad inizio maggio andiamo insieme a Nairobi per mettere a posto i nostri documenti.
E cosi'... siamo partite insieme. Proprio pochi giorni prima che Sarah avesse il volo di ritorno nella sua bella Germania, dove ora dovra' finire gli studi conseguendo la laurea specialistica.
Oppure le potrei anche soprannominare: "vacanze faidate-noalpitour"! Ed infatti... ci siamo organizzate per benino, anche se non avevamo mai viaggiato da sole in Kenya (e i viaggi qui non sono facili!)!. Abbiamo prenotato il nostro pullman: viaggio in notturna da Nairobi a Malindi (una decina di ore con breve sosta a Mombasa, tutti posti noti alla maggior parte dei nostri amici italiani che li amano come mete delle loro vacanze!) e poi proseguimento su sterrato per 3 ore per raggiungere il porto da cui ci siamo imbarcate per un'altra mezz'ora circa. Ed eccoci finalmente a quella che in poche ore sarebbe diventata la nostra amata e amichevole isola: Lamu. Ci siamo immediatamente trovate immerse in un clima caldo, e non mi riferisco solo alle condizioni atmosferiche ma soprattutto all'attenzione verso di noi da parte della gente del posto, abituata ad accogliere in modo solare gli ospiti. Per fortuna, il periodo in cui siamo arrivate a Lamu non era alta stagione e c'erano infatti pochi turisti. Dapprima tutta questa attenzione nei nostri confronti ci ha messo un po' in soggezione e anche infastidito parecchio. Eravamo in cerca di pace e di... silenzio!
Ma dopo il primo pomeriggio, abbiamo iniziato a scoprire le bellezze dell'isola. Oltre alla societa' prettamente centrata sulla pesca, le locande dove andavamo a mangiare (pesce e frutti di mare a volonta', cucina swahili e specialita' di Lamu) o a bere i magnifici succhi (la cui prelibatezza fa concorrenza aperta a quella dei succhi brasiliani!!) ci hanno letteralmente conquistato. Il tutto in una semplicita' disarmante! Che dire poi della spiaggia... e dei caratteristici negozi nel budello di Lamu... E della gita in barca, una vera barca a vela da pesca... E il tutto con la gente del posto!
Un'altra esperienza che davvero mi ha toccato e' stata la messa domenicale. Come risaputo la costa kenyota e' prettamente musulmana, tanto che, dopo aver chiesto informazioni sull'orario della messa, mi ero convinta che forse non ci sarebbe stato nemmeno il prete, figuriamoci una comunita' cristiana! Quella domenica sono entrata in chiesa e, benche' fosse l'ora della messa, c'era solo due o tre ragazzine e quello che ho poi capito essere il direttore del coro. Mi sono seduta su una delle panchine, ammirando la semplicita' di quella chiesetta bianca e profumata di aria salata. Poco per volta le persone sono iniziate ad arrivare... e quando entravano si salutavano l'una l'altra. E' stato veramente toccante vedere come la chiesa si e' riempita velocemente e la comunita' cristiana fosse cosi' aperta da farmi sentire parte di loro, anche se ero li' per la prima e l'ultima volta. Ho avuto la certezza che se la Chiesa e' presente, siamo sempre a casa. Anche se non conosciamo nessuno, ci sono dei fratelli, fratelli nell'umanita' e nella fede.
E porto nel cuore ancora tanta meraviglia, nata da questa vacanza tra accoglienti persone (nel giro di tre giorni avevamo gia' i nostri amici...!!) e nella bellezza di una natura ancora incontaminata e nella gioia di una amicizia, quella tra me e Sarah, che spero non si perda nei chilometri che ora ci distanziano.

lunedì 17 agosto 2009

Imparare

Tante cose avrei da scrivere, perche' tante cose sono successe in questo ultimo mese che sono stata fuori Marsabit e tante cose mi hanno toccato, incontrato, smosso, interrogato, fatto gioire o anche fatto perdere un po' la pazienza... Le "vacanze"-esperienza a Lamu, una bellissima e caratteristica isola 4 ore a nord di Malindi; il corso di aggiornamento dai padri comboniani sulla cultura kenyota e sulla situazione sociopolitica dopo gli scontri postelettorali di due anni fa in Kenya; le soventi visite a padre Karoli, nostro parroco di Marsabit, ancora ricoverato in ospedale a Nairobi; l'incontro con i laici a Sagana della settimana scorsa; i tanti segni dell'Amore di Dio nella mia vita, non per ultimo la profonda e bella amicizia con James.
E tante cose ho trovato nascoste dietro a questi eventi: ne scrivero' a suo tempo!
"Maisha ni schule", "La vita e' scuola": quando lo dico gli amici di Marsabit si mettono a ridere, forse perche' vedono in me una bimba che deve imparare tutto del loro mondo. Ma comunque e' la verita'... soprattutto qui a Nairobi...!
Imparo a prendere il matatu schiacciandomi dentro con altre 15 persone, bambini, galline e bagagli e a chiedere la fermata quando voglio; imparo a camminare con il naso per aria (beh, non troppo!) in un affollato mercato senza farmi sfilare i soldi o il cellulare dalla tasca; imparo a cambiare posto e camera ogni due o tre giorni e a sentirmi a casa sempre, con qualsiasi persona che condivide strada con me; imparo a mercanteggiare quando devo comprare qualcosa e alla fine riesco a pagare il prezzo che pagano gli africani; imparo a volere bene e ad aspettare e a sperare e a coltivare a distanza.
Imparo che la comunione e la missione sono questione di cuore e di volonta', di modo di essere e non di posti dove si sta. Anche quando studio, o sono in vacanza, o sono al mercato.
Imparo ad aspettare con gioia e liberta' le lettere che arrivano dall'Italia dei tanti amici che si curano di me e imparo a curarmi di loro.
Imparo la pazienza.
Imparo.
MAISHA NI SCHULE!

venerdì 17 luglio 2009

Stolen womanhood... Femminilità rubata

Desidero riportare qui alcuni brani tratti da una biografia bellissima, scritta dalla modella somala Waris Dirie... Una grande ferita aperta: la circoncisione che ha subito quando aveva 5 anni (infibulazione). Pratica che, in modo diverso e più leggero (chiamata clitoridectomia), viene praticata anche qui nel nord del Kenya. Qui a Marsabit il 100% delle donne sono passate attraverso questa pratica. E tutte le bambine e le ragazze ci passeranno...
Vi risparmio il suo racconto nei dettagli, davvero agghiacciante, piuttosto riporto le sue rilessioni...

Buona lettura...


After much thought, I realized I needed to talk about my circumcision for two reasons. First of all, it’s something that bothers me deeply. Besides the health problems that I still struggle with, I will never know the pleasures of sex that have been denied me. I feel incomplete, crippled, and knowing that there’s nothing I can do to change that is the most hopeless feeling of all. When I met Dana, I finally fell in love and wanted to experience the joys of sex with a man. But if you ask me today, “Do you enjoy sex?”, I would say not in the traditional way. I simply enjoy being physically close to Dana because I love him.
All my life I’ve tried to think of a reason for my circumcision. Maybe if I could have thought of a good reason, I could accept what they’d done to me. But I could think of none. The longer I tried to think of a reason without finding one, the angrier I became. I needed to talk about my secret, because I dept it bottled up inside me all my life.
(…)
With great pride, I accepted the UN’s offer to become a Special Ambassador and join its fight. One of the highest honours of my position will be working with women like Dr. Nafis Sadik, the executive director of the UN’s Population Fund. She is one of the first women who took up the fight against FGM, raising the issue at the International Conference on Population and Development in Cairo in 1994. I will travel back to Africa again soon to tell my story, and lend support to the UN.
For over 4000 years African cultures have mutilated their women. Many believe the Koran demands this, as the practice is nearly universal in Moslem countries. However, this is not the case; neither the Koran nor the Bible makes any mention of cutting women to please God. The practice is simply promoted and demanded by men - ignorant, selfish men – who want to assure their ownership of their woman’s sexual favors. They demand their wives be circumcised. The mothers comply bu circumcising their daughters, for fear their daughters will have no husbands. An uncircumcised woman is regarded as dirty, oversexed and unmarriageable. In a nomadic culture like the one I was raised in, there I no place for an unmarried woman, so mothers feel it is their duty to make sure their daughters have the best possible opportunity – much as a western family might feel it’s their duty to send their daughter to good schools. There is no reason for the mutilation of millions of girls to occur every year except ignorance and superstition. And the legacy of pain, suffering, and death that results from it is more than enough reason for it to stop.
(…)
Many friends have expressed concern that a religious fanatic will try to kill me when I go to Africa. After all, I’ll be speaking out against a crime many fundamentalists consider a holy practise. I’m sure my work will be dangerous, and I admit to being scared; I’m especially worried now that I have a little boy to take care of. But my faith tells me to be strong, that God led me down this path for a reason. He has work for me to do. This is my mission. I might as well take a chance, because that’s what I’ve done all my life.


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In spite of my anger over what has been done to me, I don’t blame my parents. I love my mother and father. My mother had no say-so in my circumcision, because as a woman she is powerless to make decisions. She was simply doing to me what had been done to her, and what had been done to her mother, and her mother’s mother. And my father was completely ignorant of the suffering he wa inflicting on me; he knew that in our Somalian society, if he wanted his daughter to marry, she must be circumcised or no man would have her. My parents were both victims of their own upbringing, cultural practices that have continued unchanged for thousands of years. But just as we know today that we can avoid disease and death by vaccinations, we know that women are not animals in heat, and their loyality has to be earned with trust and affection rather that barbaric rituals. The time has come to leave the old ways of suffering behind.
I feel that God made my body perfect the way I was born. Then man robbed me, took away my power, and left me a cripple. My womanhood was stolen. If God had wanted those body parts missing, why did he create them?
I just pray that one day no woman will have to experience this pain. It will become a thing of the past. People will say, “Did you hear, female genital mutilation has been outlawed in Somalia?”. Then the next country, and the next and so on, until the world is safe for all women. What a happy day that will be, and that’s what I’m working toward.

(From “Desert flower”, by Waris Dirie)
For further information: http://www.waris-dirie-foundation.com/;