lunedì 7 settembre 2009

Per salire sulla montagna...

Da qualche tempo stavo cercando di trovare un momento per andare al Santuario e alla tomba di don Tablino. Dopo la sua morte, tra un impegno e l’altro, non sono stata più frequente nelle visite alla cappella in cima alla collina… Forse anche perché ora manca lui. Approfitto di alcune ore libere il venerdì pomeriggio per mettermi in strada e affrontare la mezz’ora di salita verso la casa di preghiera. Mi vesto per bene, con una bella stoffa colorata avvolta attorno al viso e le scarpe robuste che mi ha lasciato Sarah. C’e’ poca gente in giro, sulla strada principale. Non ci passo da un bel po’ di giorni, perché quando vado in paese preferisco usare la stradina in mezzo alle case, dove almeno non passano auto e c’e’ meno polvere. Comunque non noto nessun cambiamento. Spingo lo sguardo avanti per cercare con gli occhi il sentiero che sale sulla montagna, ma vedo solo una spessa coltre bianca, come nebbia, ma che nebbia purtroppo non è. Mi copro la bocca con la mia sciarpa e proseguo. Impiego molto energie per combattere la forza del vento che mi sfida ad ogni passo. Attraverso un campetto, ricoperto di sacchetti di plastica, portati dal vento chissà da dove… e finalmente inizio la salita. Il Santuario impera maestoso sulle brulle vallate di Marsabit, dove le capre hanno finito anche i semi che per mesi erano rimasti speranzosi sottoterra. Giungo alla tomba di Tablino senza incontrare persona. Lo sento presente, vivo. Gli raccomando le persone che mi hanno chiesto di pregare per loro, soprattutto alcuni amici dall’Italia e anche la situazione della nostra diocesi di Marsabit e del lavoro pastorale. E poi, dopo un digiuno troppo lungo dalla Parola, mi siedo con la mia Bibbia, nella cappella del silenzioso Santuario e passo un’ora senza rendermene conto. Come arrivare all’acqua dopo una camminata sotto un sole cocente. Come rivedere la persona che ami dopo tanto aspettare. Il mio cuore riposa, come non faceva da tempo. E allo stesso tempo è vigile a cogliere i suggerimenti dello Spirito, che ridanno significato al mio essere qui. E alla sofferenza di esserci da sola. Dopo aver salutato father Dutto, me ne torno rappacificata a valle, passando a salutare le suore comboniane in parrocchia. L’indomani sarebbe stata una giornata all’insieme della comunione. In programma la festa della Beata Teresa di Calcutta, fondatrice delle Suore missionarie della Carità che lavorano anche a Marsabit. Alle 11 ci ritroviamo nella parrocchiale per la Santa Messa, presieduta dal vescovo. Canto con il coro e affatico anche un po’ la voce, assecondando per quando posso il timbro africano e diretto delle mie vicine. Pranziamo insieme sotto la tettoia delle Charity sisters e, dopo un breve saluto a padre Paolo, m’incammino verso casa senza voglia di raggiungerla, desiderosa - se solo potessi - di trascorrere un po’ di tempo in buona compagnia di fedeli amici. In Marsabit l’individualismo e la frammentazione sono quasi a livello europeo. Ognuno si deve costruire a fatica la propria nicchia di conoscenti e amici. Ancora diverso a Maikona e Kargi in manyatta… Ma anche quest’atteggiamento individualista si spezza nel cuore limpido dei bambini, che ormai conoscono quella “sister” che ogni giorno passa davanti a casa loro e dopo un primo momento di esitazione, mi corrono incontro con la manina tesa, gridandomi “yoya”, soprattutto quando vesto la gonna e non i pantaloni…! Nella camminata di ritorno incontro due bimbetti che avevo già salutato al mattino. Uno di questi non sa una parola di kiswahili, solo borana e mi fa ridere perché ripete l’ultima parola di tutto quello che io dico, forse cercando di rispondere alle mie domande. Si avvicina un amichetto, tre anni su per giù, ed io tendo loro la mano salutando con un “Nagat”, “arrivederci”. Lui mi prende la mano, la guarda e ci… sputa sopra. Sono certa lo ha visto fare dai suoi nonni o dal suo papà, in segno di benedizione per un ospite. E ripete il gesto, sorridente. Anch’io ricambio la benedizione, solo a parole però! Mi allontano e non riesco a trattenere il riso. Il Signore si sta davvero prendendo cura di me e mette segni ovunque, per rafforzarmi, per essere Sua testimone più fedele e… per curare quelle ferite che ogni tanto fanno ancora piangere il mio cuore. Ma che continuano ad alimentare un altro grande sogno della mia vita. Che è quello di “amare fino alla fine”, senza tenermi niente, in coppia, in famiglia. Alla sera ricevo diverse telefonate: mia mamma, che aggiorna sulla vendemmia dei Dolcetti; Moses, un missionario laico, che avevo conosciuto a Marsabit nel 2001 e che ora è preside di una scuola a Garissa; James Dokhe, il mio caro fratello di Kargi, che mi invita ufficialmente al suo matrimonio il 27 dicembre e l’altro mio prezioso amico James, reduce da un brutto raffreddore, ma di cui mi fa piacere sentire la voce. Vado a letto soddisfatta. Con tante parole amiche, e una benedizione che vale più di un tesoro.

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