mercoledì 13 gennaio 2010

Non per cambiare l'Afrika... ma per camminare insieme!

Da "Gazzetta d'Alba", 12/01/2010
Pazienza e rispetto. Sono le prime parole che bisogna imprimere nel cervello e nel cuore prima di partire per un’esperienza missionaria. Rispetto per le genti e per i luoghi che si vanno a visitare; pazienza nell’aspettare che germoglino i semi piantati dai primi missionari. Rispetto, perché deve essere chiaro che l’evangelizzazione non è operazione di colonizzazione culturale; pazienza, perché non è facile schiodare un popolo dalle proprie convinzioni. Non è facile far capire che un portatore di handicap è una persona come tutte le altre, perché dentro di lui c’è la vita, e che non è giusto che questi venga emarginato dalla comunità. E nella spicciola quotidianità, non è facile insegnare che, per prevenire le malattie, l’acqua deve essere bollita prima di essere bevuta. Il compito dei padri e delle suore missionari è questo: un lavorio paziente nelle menti e nei cuori della gente, talora frustrante; il contatto con i problemi quotidiani delle famiglie; una vita in mezzo alle persone e come le persone. Per i frutti, occorre avere molta pazienza.
Alba to Marsabit. L’idea di partire per il Kenya per far visita ai padri e alle suore missionarie di Marsabit – e non solo – è nata un po’ per caso. Non ci conoscevamo. Tutti e quattro, però, volevamo intraprendere un’esperienza di questo tipo. Per vie più o meno tortuose, tutti siamo arrivati al Centro missionario diocesano e a don Gino Chiesa, nonché a Patrizia Manzone, missionaria laica in Marsabit. Patrizia si è subito detta entusiasta della nostra visita. In poco tempo, don Gino ha messo in piedi un percorso di formazione, appoggiandosi all’esperienza di don Giacomo Tibaldi, per lungo tempo missionario nel nord del Kenya. Abbiamo anche incontrato don Bartolomeo Venturino, colui che, nel lontano 1962, insieme a don Paolo Tablino, si spinse da Nyeri, nel sud del Kenya, fino alle regioni più desertiche del nord, ed infine fino a Marsabit, fondando la prima missione e dando inizio ad un lungo cammino di riscatto spirituale e materiale con le popolazioni locali.
Nairobi. Partiti lo scorso 16 dicembre, dopo un volo «avventuroso», il primo impatto con il Kenya non è stato entusiasmante. Nairobi è una metropoli che ha preso il peggio delle città occidentali: traffico, inquinamento e criminalità. Ciò che urta di più, però, sono le contraddizioni. Mentre nel centro di Nairobi si vive «all’occidentale» – non mancano acqua, elettricità e grandi centri commerciali –, a pochi chilometri dal centro milioni di persone sono stipate nelle baraccopoli di lamiera, nel fango.
Il cammino verso il nord somiglia ad un regresso nel passato, ad un ritorno nella culla dell’umanità. Pian piano, i segni della globalizzazione e dell’occidentalizzazione scompaiono. Le case in muratura lasciano spazio prima alle lamiere, e poi alle capanne. Gli abiti tradizionali delle numerose tribù indigene prendono il posto di pantaloni e t-shirt. Non si parla più inglese, ed il kiswahili di Patrizia ci permette di incontrare la gente del luogo. Ad Archer’s Post termina la strada asfaltata e per arrivare a Marsabit mancano 250 chilometri. Il tracciato è tanto affascinante quanto ricco di insidie: anche in Kenya sono arrivate le armi e alcune popolazioni locali, in assenza di controlli, non esitano a fermare i passanti per rapinarli.
Marsabit. I padri comboniani – che hanno preso il posto degli albesi dal 1998 – ci hanno accolto con calore e semplicità, così come le suore. Non trascorrono una vita facile. Raccolgono l’acqua piovana in grandi tank di plastica durante la stagione delle piogge e cercano di farsela bastare per tutto l’anno. Dall’acquedotto non arriva una goccia. Il cibo è quello che arriva a Marsabit: patate, riso, carne, e raramente qualche «specialità» da Nairobi come pasta o formaggio. Padri e suore vivono in mezzo alla gente, sporcandosi le mani: accanto ai complessi problemi pastorali si innestano una serie di attività collaterali – prima fra tutte la gestione delle scuole primarie e secondarie in un’area in cui il governo non ha mai costruito nulla – che tengono impegnati a tempo pieno i missionari. Abbiamo la fortuna di avere con noi Patrizia che ci porta in mezzo alla gente, nelle case, nelle famiglie più o meno povere. Non dimenticheremo mai l’ospitalità degli abitanti di Marsabit.
Natale nel deserto. È sempre grazie a Patrizia che abbiamo trascorso un Natale davvero speciale. Abbiamo fatto visita a don Bartolomeo Rinino, già parroco di Roreto, a Kargi, in mezzo al deserto. Qui la vita è ancora diversa. Ci sono solo capanne e l’unica attività è la pastorizia. C’è un pozzo, ma l’acqua è contaminata. Don Rinino ed una comunità di fedeli davvero eccezionale ci hanno fatto vivere un Natale semplice, senza cene né regali, ma indimenticabile. La vicinanza di questo padre, la sua fede, la sua incrollabile energia ci ha piacevolmente sorpresi.
Ritorno a Marsabit. Tornati a Marsabit per la fine dell’anno, abbiamo avuto ancora la fortuna di poter visitare con Patrizia alcune realtà locali. Non potremo dimenticare la vergogna dell’ospedale statale di Marsabit, dove il confine fra vita e morte è davvero sottile. Diversa è la situazione nei dispensari gestiti da suore o padri. Sarà anche difficile dimenticare il volto dei bambini dell’orfanotrofio di Marsabit (gestito dalle suore di Madre Teresa di Calcutta) e di molte persone che ci hanno accolto con calore ed amicizia. Il ritorno a Nairobi ha significato un ritorno a ritmi, comportamenti e stili di vita occidentali.
Un’esperienza di questo genere è forte e ti cambia. Ha messo in dubbio molte delle nostre certezze e delle nostre difese culturali e personali. Molte sarebbero le cose da raccontare. Nulla sarebbe stato possibile senza Patrizia Manzone, la sua cordialità, il suo inguaribile ottimismo. La sua scelta «radicale» di mettersi in discussione e di dedicare tre anni della sua vita al completo servizio del prossimo, in un contesto di vita non facile, ci riempie di ammirazione, ma ci sprona anche a fare qualcosa in prima persona. Non per cambiare l’Africa: noi non dobbiamo cambiare proprio nulla. Solo per camminare insieme verso un futuro migliore.
Alessandro, Luisa, Martina e Teresa

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