sabato 9 ottobre 2010

Dal mosto al vino...


Giornate piene di bambini. Anzi ricche di bambini.
Pochi giorni fa è nata Cornelia, la figlia di mio fratello James e sua moglie Mary, che si sono sposati a Kargi a dicembre 2009. E’ voluta venire al mondo quando era ancora troppo piccola e ora dorme nella pancia artificiale che la scalda e la aiuta a crescere. Ma ha due genitori che la chiamano “dono di Dio” e di certo Dio la protegge.
Non così fortunata come i due neonati da poco arrivati dalle suore di Madre Teresa qui a Marsabit. Uno è stato dato alla luce nell’ospedale di Marsabit, ma la mamma, poco sana di mente e non sposata, ha tentato di ucciderlo durante la sua prima notte di vita. I dottori l’han salvato e senza dir niente alla mamma, l’han affidato alle cure delle suore. L’altro, figlio di nessuno, l’han trovato sul bordo della strada non lontano dalla chiesa, infagottato e piangente, con ancora l’ombelico non guarito e una fame da lupi. Una mamma che al mattino presto passava nei pressi si e’ accorta di lui e ha chiamato la polizia. Che lo ha portato alla Hope House, la casa delle suore di Madre Teresa. Sono passata a vederli l’altro ieri, nei loro bei lettini tutti in ordine, infagottati nelle loro copertine e curati dalle signore che lavorano nella casa. Appena nati e già un passato così pesante sulle loro piccole spalle.
Ma d’altronde se andiamo a Nairobi nelle case per i bambini – i cosiddetti orfanotrofi – sentiamo raccontare decine e decine di storie così, mentre giochiamo con i bambini e osserviamo i loro capelli pettinati, i loro occhioni che scrutano il mondo e la loro voglia di vivere.
Come la storia di Adano che ho già raccontato e che e’ passato di qui, da casa, proprio pochi minuti fa dicendomi che domani pomeriggio – domenica – al collegio daranno il pomeriggio libero e lui… non sa cosa fare. E’ qui da solo, non ha nessun parente a Marsabit, molti degli altri alunni andranno a casa dalla mamma. Gli ho detto che io probabilmente non sarò a casa perché ho il gruppo del vangelo, ma lui può venire a giocare con i bimbi del nostro cortile. Flora e Humulat sono stati contenti di sapere che avranno un altro compagno di giochi e so di certo che Adano godrà della loro compagnia.
Oggi pomeriggio sono arrivata in parrocchia prima del solito e ho approfittato per seguire alcuni minuti Rai International. Immagini girate dall’elicottero che volava sulle campagne toscane e umbre, con un filo di nostalgia, mi han riportato per un attimo a casa, a Monforte, dove in questo momento il mosto bolle nelle botti, embrione di quel vino adulto che berremo tra qualche anno. Mi sono tornate alla mente belle immagini e… i profumi, che dopo aver messo la macchina in garage, salendo le scale per la cucina, riempivamo le mie narici i primi giorni di scuola, da alunna e da maestra. Un profumo segno di qualcosa che va formandosi nel buio della cantina, segno di un lavoro che non si ferma mai, di un amore, di una cura che porterà questo succo d’uva ad avere una sua etichetta e ad essere degustato in cene, che sarà sposato con cibi scelti, che porterà quel tocco in più quasi indispensabile ai nostri palati langaroli, segno di un incontro riuscito, di una festa felice, di una compagnia condivisa. Un mosto bambino il cui scopo e’ diventare un vino adulto. E non un adulto qualsiasi, il migliore vino che può essere.
Così come i nostri bambini. Tutti i bambini del mondo. Anche quelli che nascono già segnati in qualche modo. Un seme già sbocciato, che vuole diventare albero. O fiore. O erba. Ma il migliore che gli e’ dato di essere. E che cresce piano piano. Senza fretta. Aiutato da tante mani, alcune sapienti altre meno. E che ha bisogno di avere un serbatoio pieno di amore in sé, anche senza giocattoli, anche senza videogiochi, anche senza menu firmati dal nutrizionista (vorrei che ne venisse uno qui a firmare i nostri menu: polenta, fagioli, riso, cavoli, patate e poi si ricomincia!), anche senza assicurazioni di poter studiare fino al termine delle scuole medie o superiori perché non ci sono i soldi per farlo, anche senza essere lindi tutti i giorni da testa ai piedi.

Adulti in bocciolo che mi disarmano. Come un paio di giorni fa, quando al ritorno dal lavoro stanca e impolverata, volevo fare subito una doccia e poi rilassarmi un po’, ma mi trovo Humulat alla porta di casa appena arrivo. Gli spiego le mie intenzioni e lui mi dice che sta a giocare fuori. Bravo bimbo! Entro nel bagno, mi faccio la doccia e poi esco inviluppata nel mio asciugamano e… mi spavento e faccio un salto indietro: Humulat seduto per terra, nella penombra, vicino alla porta d’ingresso mi guarda serio e mi dice: “Ti voglio aspettare qui”. Gli sorrido: fantastico bambino dalla disarmante semplicità! Ecco la mia “Maria” che seduta ai piedi di Gesù sapeva dove riporre il suo cuore e che qualità dare alle sue relazioni. E come lo scorso lunedì, dopo essere stata il week end a Maikona, mi ero appena svegliata, quando ho sentito bussare alla porta. “Chi e’?”. “Sono io!”… Eccolo qui, il nostro Humulat: “Ma che ci fai già in piedi alle 6.20 di mattina?”. Gli occhietti ancora semichiusi e la faccia gonfia dal sonno, come se fosse saltato giù dal letto un minuto prima: “Sono venuto a salutarti perché ho visto che sei tornata!”.

Tante volte siamo tentati di pensare e di insegnare, soprattutto noi europei, che prima dobbiamo essere buoni, giusti, dobbiamo “crearci la salvezza”, essere perfetti e poi possiamo seguire Gesù. Ma i nostri bimbi ci insegnano in modo diverso; la vita, anche di coppia, ci insegna in modo diverso. E’ il viaggio con Lui e con gli altri che ci salva. Non la condizione di partenza di essere buoni e perfetti. O la convinzione di saper amare o di essere cristiana. E’ invece la missione qui che mi fa di Cristo, non il contrario. Non importa che peso ho caricato sulle spalle. E’ durante il santo viaggio che vengo salvata, che cresco, che imparo ad amare, perché e’ durante questo viaggio che assaporo il suo amore.
Come i bambini…

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